Termini inglesi: possiamo farne a meno in Italia?

di Sofia Ciatti
7 Min.

La proposta di legge contro i termini inglesi

Negli ultimi giorni sta facendo parlare di sé Fabio Rampelli, deputato di Fratelli d’Italia e vicepresidente della Camera, ha presentato una proposta di legge a Montecitorio, il cui testo impone di trasmettere qualsiasi comunicazione pubblica in italiano, senza ricorrere ai termini inglesi.

La proposta riguarda anche l’istruzione: negli atenei e nelle scuole i corsi in lingua straniera sono ammessi solo se in aula sono presenti studenti stranieri.

Nel caso in cui qualcuno dovesse violare tali punti, dovrà corrispondere una multa che può andare da 5.000 a 100.000 euro. Nel documento si legge che la proposta rientra «in un’ottica di salvaguardia nazionale e di difesa identitaria».

Ma, in Italia, possiamo davvero fare a meno dei termini inglesi?

Termini inglesi
Sui social si ironizza…

Termini inglesi
Nei negozi italiani è frequente trovare sale anziché saldi

Pasolini e il Neoitaliano

Già nel 1964, il letterato Pier Paolo Pasolini indicava la nascita di un nuovo italiano, il cosiddetto neoitaliano, basato sulla semplificazione sintattica, sulla diminuzione dei latinismi e sull’uso di un “gergo tecnologico”. Nell’ottica di Pasolini non era altro che il risultato dello strapotere della cultura borghese e industriale dell’Italia Settentrionale, dove avevano sede le grandi industrie.

Alcuni studiosi di grammatica storica della lingua italiana ritengono che l’italiano stesso infarcito di forestierismi, anglicismi in questo caso (marketing, target ecc.), sarebbe una naturale evoluzione del neoitaliano già individuato negli anni ’60 da Pasolini.

L’inglese come koinè già tra Medioevo e Rinascimento

È a partire dal Medioevo che i termini inglesi cominciano a fare capolino nell’uso della nostra lingua, soprattutto per via dei rapporti commerciali intrattenuti con l’Inghilterra: si cominciò a parlare di “sterlini” (attestato nel 1211) e di “costuma” (ovvero “dogana“, dall’inglese customs).

In epoca rinascimentale, poi, entra nell’uso corrente italiano l’espressione “alto tradimento” (calco dell’inglese high treason) e parlamento, lemmi relativi alla vita sociopolitica inglese, comparsi nelle relazioni di ambasciatori e viaggiatori italiani all’interno delle loro opere storiche.

I termini inglesi tra ‘700 e ‘900

Dal Settecento, l’inglese diviene quasi irrinunciabile e si impone come lingua veicolare: tutto il mondo guardava con ammirazione a Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, merito della rivoluzione industriale, delle nuove istituzioni parlamentari nate dopo la guerra civile del 1642, del potente impero coloniale per quel che riguardava l’Inghilterra; del mito della Rivoluzione americana e della nuova nazione indipendente per quel che concerneva i neo-Stati Uniti.

Allora ecco entrare nell’uso comune una vasta serie di voci (club, pamphlet, humour).

Nell’Ottocento la penetrazione degli anglicismi si fa più capillare e negli scritti, soprattutto di personalità di estrazione colta, non si rinuncia ad utilizzare i termini di leader, meeting, premier, ma anche di dandy, fashion, festival e nei menù dei ristoranti comparvero parole come brandy, gin, whisky; rostbif (adattamento di roastbeef), curry.

Tra ‘800 e ‘900 gli anglicismi hanno letteralmente invaso tutti i campi semantici e lessicali: nel settore economico, boom, business, check, copyright, export, manager, marketing, stock; nel settore dei trasporti cargo, ferry-boat, yacht, bus, clacson; al cinema, cast, film, set; in quello sportivo goal, cross, dribbling, offside (poi anche fuorigioco), tennis, ring del pugilato. Per non parlare di barman, boss, boy-scout, camping, gangster, killer, shopping, snob.

Il Fascismo contro i termini inglesi

Negli Anni ’30 del ‘900 il fascismo, mobilitando intellettuali, linguisti, puristi della lingua italiana, dichiarò guerra ai forestierismi e istituì la Reale Accademia d’Italia per coniare un italiano rinnovato e puro, non contaminato da termini appartenenti ad altre dimensioni nazionali e culturali. Tuttavia, il vocabolario che Benito Mussolini commissionò alla Reale Accademia non si realizzò mai.

Il quotidiano romano La Tribuna (attivo poi sino al 1946) bandì un concorso con un premio in denaro, mille lire, per chiunque avesse trovato la traduzione migliore per queste parole: dancing (vinse “sala da ballo”)taxi (“tassì”), barbazarcocktail.

Alcuni termini furono tradotti ma senza successo, come ci dimostra anche l’italiano di oggi: tassellato al posto di parquet, obbligata per slalom, mescita invece di bar, uovo scottato per uovo à la coque, fin di pasto invece di dessert.

Le insegne che contemplavano termini stranieri (hotel e garage, per esempio) non furono vietate, ma le attività furono costrette a pagare imposte venti volte maggiorate rispetto a chi aveva insegne in italiano.

Allora è possibile fare a meno dei termini inglesi?

Negli ultimi decenni alcuni campi semantici hanno accolto più di altri gli anglicismi: il cinema e la televisione (cult, news, zapping), pubblicità e marketing (sponsor, spot, testimonial), le discipline scientifiche, il settore economico-finanziario e quello informatico. In più, numerosi termini sono entrati nell’uso comune perché ricorrenti in uno slogan, in un film, in una notizia televisiva.

Visto e considerato il tutto, terminare una frase senza infilarci dentro qualche termine inglese è davvero una mission impossible

Fonti: Corriere della Sera, Treccani, Open Online, Il Sole24Ore, Focus, Accademia della Crusca.

Scritto da Sofia Ciatti


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