Il 26 novembre 2010 non fu un giorno come gli altri. Tredici anni sono passati da quel tragico e piovoso venerdì in cui, nel piccolo comune di Brembate di Sopra, si consumò uno dei delitti più efferati della storia del nostro Paese. Perché sì, il caso di Yara Gambirasio ha tristemente legato gli italiani in una morsa di apprensione nei confronti della giovane tredicenne che mai, dall’allenamento, tornò a casa.
È difficile spiegare a chi non ha vissuto una tale tragedia in prima persona il sentimento di speranza che è stato in grado di unire milioni di connazionali dietro il piccolo schermo e che, presto, ha dovuto lasciare spazio ad un’atroce realtà.
Di Yara, ad oggi, non se ne parla più come un tempo. L’attenzione si concentra sporadicamente intorno a possibili nuove piste che, dal nulla, hanno l’ambizione di svelare una verità spesso ritenuta manchevole. Quasi come fossero spinte da un moto di giustizia nei confronti di chi, come i genitori, una giustizia non l’ha avuta.
Ma facciamo un passo indietro.
Gli antefatti
Yara Gambirasio è una sorridente ragazza di tredici anni, iscritta al terzo anno della scuola media “Maria Regina” di Bergamo. Residente a Brembate di Sopra, meno di ottomila anime, è lì che coltiva la sua passione nei confronti della ginnastica ritmica.
Destinata a diventare una promettente atleta, Yara si reca quasi ogni giorno presso la palestra del paese. E lo farà anche nel pomeriggio di quel maledetto 26 novembre.

Qui rimarrà per poco più di un’ora, dalle 17:30 alle 18:40 circa, prima di entrare nella triste spirale del terrore che la porterà alla morte. Le sue tracce si perderanno infatti pochi minuti dopo l’uscita dal centro, senza che le guaste telecamere di sorveglianza riescano a catturarne un fotogramma.
Il suo telefono, riveleranno gli inquirenti, registrerà differenti posizioni fino alle 18:55. Prima da Ponte San Pietro a Mapello – pochi chilometri distante – sino all’ultima ubicazione in via Ruggeri.
Un clamoroso tonfo
La stampa italiana mormora. Il caso di Yara è già diventato di natura nazionale e, anche ai telegiornali, non si parla d’altro. Più di 500 testimoni vengono ascoltati nei giorni successivi al rapimento, ma nessuno sarà in grado di fornire informazioni utili al caso. Bisognerà aspettare il 5 dicembre, più di una settimana, per imboccare quella che sembrava essere la strada giusta.
Invece, l’arresto di Mohamed Fikri si rivelerà un clamoroso buco nell’acqua.
L’uomo è – al tempo dei fatti – un operaio ventiduenne, occupato presso il cantiere edile di Mapello. Proprio il luogo presso cui i cani molecolari hanno concentrato le battute degli ultimi giorni.

Interrogato per via preliminare sul posto di lavoro, si sarebbe poi imbarcato il giorno dopo per raggiungere i familiari nel nativo Marocco.
E sarà proprio la nave il palcoscenico di un teatro del ridicolo. La Guardia Costiera arresta Fikri con l’accusa di aver rapito la piccola Yara.
Le prove a suo carico? Delle presunte intercettazioni telefoniche in arabo che, come scopriremo, sono state mal tradotte. “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io” è la prima delle due frasi ritenute valide dal gip Ezia Maccora per la sua incarcerazione. La stessa sarebbe poi stata seguita da un’altra invocazione sacra, “che Dio mi perdoni”.
Convalideranno il ferreo alibi di Fikri soltanto dopo diversi giorni in cella, la perdita del posto di lavoro e la gogna mediatica nata dai mass media, con l’ammissione – inoltre – di svariati errori di traduzione nelle frasi riportate.
L’imputato, nel tentativo di raggiungere telefonicamente la madre, avrebbe infatti pronunciato tutt’altro. “Allah, ti prego, fa che mi risponda” è infatti l’esortazione realmente proferita, seguita da un “che Dio mi protegga” con riguardo verso il viaggio che avrebbe dovuto affrontare.
Fikri, agli atti decretato innocente solo nel tardo 2013, verrà risarcito con soli novemila euro per i danni d’immagine riportati.
Yara: dal ritrovamento a “Ignoto 1”
Nel frattempo, esattamente tre mesi dopo e con l’ormai quasi certezza che non ci fosse alcuna speranza di rivederla in vita, gli inquirenti ritrovano il corpo di Yara. Un aeromodellista quarantottenne farà la tragica scoperta in un campo nei pressi di Chignolo d’Isola, a 10 chilometri dal luogo della scomparsa.
Gli esiti delle analisi riveleranno la presenza di un trauma cranico e di profonde ferite da arma da taglio. Il decesso sarebbe avvenuto a distanza di tempo, forse molto, a causa del freddo e delle lesioni.

Il ventottesimo giorno di maggio sarà scelto per il funerale, celebrato dal vescovo di Bergamo e durante il quale una lettera del Presidente della Repubblica avrà modo di essere letta. Poi, per anni, il buio.
Una svolta decisiva nelle indagini si avrà tre anni dopo, il 16 giugno 2014, con l’arresto del muratore di Mapello Massimo Giuseppe Bossetti. Il suo DNA nucleare risulterà infatti quasi perfettamente sovrapponibile con quello di “Ignoto 1”, il sospettato di cui avevano individuato le cui tracce sugli indumenti di Yara. Sui suoi indumenti intimi, addirittura.
L’iter che ha portato all’identificazione del presunto omicida è stato lungo e tortuoso, come rivelato dagli inquirenti coinvolti. L’iniziale corrispondenza dell’aplotipo Y – ovvero la combinazione di più varianti alleliche lungo un cromosoma – aveva infatti portato le forze dell’ordine nella direzione di un abituale frequentatore dei locali notturni del posto, estraneo a Bossetti.

Questi risultò sì all’oscuro dei fatti, ma fondamentale per una primaria risoluzione del caso.
Si riuscì infatti ad identificare in Giuseppe Guerinoni, autista deceduto una decina di anni prima, il padre naturale di Ignoto 1. Diverse confidenze di paese rivelarono la passione dell’uomo per le scappatelle extraconiugali, di cui una, in particolare, con Ester Arzuffi.
La donna, tramite apposite analisi riguardanti l’allele 26, si rivelerà essere il profilo meglio compatibile con la madre dell’omicida.
Le accuse
Il patrimonio genetico di cui sopra verrà poi confrontato con quello di Bossetti, costretto all’etilometro nel corso di un normale controllo stradale, dando prova della effettiva sovrapponibilità.

Tale pista, definita schiacciante dagli inquirenti, sarà valevole per decretare la colpevolezza del muratore. Inoltre, un presunto filmato ritraente il suo furgone nei pressi della palestra di Brembate lo inchioderebbe ulteriormente.
Le riprese si riveleranno però un falso, create a regola d’arte dai RIS e dalla procura di Bergamo per esigenze di pubblicazione stampa. Al contempo, i legali di Bossetti contesteranno la mancanza di corrispondenza del DNA mitocondriale nelle tracce esaminate.
Quel poco che ne è stato rinvenuto nei pressi del corpo, infatti, non sarebbe risultato appartenente a Bossetti, suggerendo l’identità di un possibile altro individuo. Tale controversia verrà poi liquidata dai genetisti dell’accusa, che agli atti asseriranno fosse dovuta ad una probabile eteroplasmia della ragazza.
L’alibi promosso dai legali di Massimo Bossetti e dalla moglie, ovvero che egli si trovasse a casa la sera del delitto, non verrà ritenuto valido. Lo stesso si potrà dire per la motivazione sostenuta in merito al ritrovamento del DNA, dovuto – secondo il presunto colpevole – a dei frequenti episodi di epistassi in grado di macchiare con tracce ematiche gli attrezzi da lavoro.
A nulla serviranno le continue riluttanze dell’uomo nel confessare. O la continua insistenza dei suoi assistenti riguardo una non provata innocenza. La Procura sancirà la chiusura del caso il 26 febbraio 2015, indicando Massimo Giuseppe Bossetti come unico colpevole e condannandolo, un anno dopo, all’ergastolo tramite la Corte d’Assise.
“Ignoto 2”
Quel che però lascia attonita la nazione intera è lo strenuo pressing dei legali dell’uomo, in grado di convocare fino a 711 testimoni nel tentativo di provarne l’estraneità ai fatti.

Qui inizierà a prender forma l’ipotesi dell’esistenza di un “Ignoto 2”, vero proprietario del patrimonio genetico mitocondriale, e di una ipotetica contaminazione delle analisi di laboratorio. Verrà contestata, inoltre, l’irripetibilità dei test del DNA.
Il processo d’Appello richiesto dalla difesa tutta comincerà nel 2017, precisamente il 30 giugno. In sede di tribunale verrà presentata la teoria dello spostamento del corpo, coadiuvata da una foto satellitare nella quale il corpo di Yara non risultava visibile, con successivo posizionamento delle tracce con l’obiettivo di incastrare Bossetti.
Prima i giudici di Brescia e, nel 2018, il terzo grado di Cassazione, negheranno tale possibilità, confermando la condanna all’ergastolo per il crimine commesso ed inserendolo in un contesto di avances a sfondo sessuale mosse nei confronti dell’adolescente.
La riapertura: la morte di Yara è forse una vendetta mafiosa?
Quanto teorizzato nel corso di quegli anni da Roberto Saviano, scrittore e giornalista, nei confronti di un possibile coinvolgimento della criminalità organizzata nella sparizione di Yara, non verrà mai preso in considerazione. Forse a causa di una ricostruzione troppo articolata.
Egli infatti ipotizzò che il gesto fosse una ritorsione della malavita nei confronti di Fulvio Gambirasio, padre della giovane nonché teste chiave di un processo nei confronti della famiglia dei Locatelli, coinvolta nel narcotraffico.
Questa, negli alti ranghi dell’impresa edile Lopav – dove peraltro Fulvio era impiegato -, era intestataria di appalti proprio nella zona di Mapello, dove si concentrarono le ricerche.
Il “caso Yara”, diventato presto “caso Bossetti” per via del vasto interesse mediatico che l’uomo riuscì a canalizzare nei suoi confronti, venne riaperto nel novembre 2019.
A motore di ciò vi fu una lettera indirizzata a Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero, al quale Bossetti chiese sostegno. Dichiaratosi per l’ennesima volta innocente, l’accadimento desterà l’interesse del noto avvocato Carlo Taormina, che da cittadino privato farà istanza di riesame del patrimonio genetico.
La Corte d’Assise darà presto l’ok, consentendo ai difensori di entrare in possesso del materiale rimanente.
La prassi legale prima dell’effettiva possibilità di accedere al DNA si protrarrà fino al 2021, anno in cui, nel mese di giugno, le richieste verranno rigettate. I campioni biologici sarebbero infatti completamente esauriti, impedendo così ogni nuovo esame.

Ai giorni nostri
Di questo fatto, citato presto in giudizio, risponderà la pm Letizia Ruggeri, indagata per frode processuale e depistaggio. La donna avrebbe richiesto, noncurante del danno che tale gesto potesse causare, lo spostamento delle 54 provette contenenti i pool genetici di vittima e accusato. L’errato modus operandi del trasferimento, durato circa due settimane ad una temperatura costante di -80°C, sarebbe stato decisivo nella degradazione dei campioni.
Arriviamo dunque ai giorni nostri, nel mese di maggio 2023. Qui, il giorno diciannove, la Prima Sezione della Cassazione ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati difensori, autorizzando il rinvio per un nuovo esame degli elementi chiave del processo.
Ad oggi, però, tutto tace.
Conclusione
Diverse sono le ombre che questo caso, seppur a distanza di tredici anni, ancora cela. Altrettante, invece, le ambiguità che ancora caratterizzano la figura di Massimo Bossetti.
L’uomo fu infatti accusato, nell’ormai lontano 2014, di aver consultato siti web riguardanti la pornografia infantile, e alcune delle sue ricerche sembravano aver confermato ciò. E questo fu creduto fino al 2016, quando il suo consulente informatico di riferimento dimostrò l’inattendibilità delle accuse, confermando sì la visione di filmati dal carattere pornografico, ma nel pieno rispetto della legge e di quanto un normale motore di ricerca possa offrire.
Come non pensare, inoltre, alle tracce di polvere di calce trovate all’interno dei polmoni di Yara, in grado di suggerire una stretta vicinanza avuta nell’ultimo periodo trascorso in vita con chi, nel quotidiano, si occupava proprio di calce e mattoni.
Tutto parrebbe indirizzare a quel muratore, di ormai 53 anni, che da quasi due lustri si trova in carcere. Troppe sono le prove a suo carico.
Ma allora perché, ad oramai dieci anni di distanza, Massimo Giuseppe Bossetti non ha mai confessato?
Scritto da Fabio Virzì
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