SaturDie Ep.25 – La storia di Alfredino Rampi

L'incidente di Vermicino

di Gaia Vetrano
17 Min.

Quando il 10 giugno 1981 Alfredino Rampi mette piede fuori casa, non sa che sarà l’ultima volta che esplorerà le campagne attorno Roma.

Quarant’anni fa, lungo la strada che porta da Roma verso Frascati, la famosa Tuscolana, centinaia di macchine si incolonnarono per raggiungere quello che per tutti era un pozzo artesiano.

Questo si realizza quando si vuole attingere alle omonime falde. Questo perché sono meno superficiali, ma garantiscono una potabilità dell’acqua superiore.

Generalmente, trovandosi l’acqua a una notevole pressione, sottoterra, quando la trivella scava il passaggio, questa sgorga naturalmente.

Nonostante il pozzo artesiano più famoso, per le sue dimensioni, si trovi in Australia, in Italia ne abbiamo uno egualmente tanto conosciuto. Ma per delle motivazioni molto più oscure. Una in particolare, prende il nome di Alfredo Rampi, per tutti Alfredino.

C’erano molte cose a muovere quelle centinaia di persone verso Vermicino: curiosità, morbosità, voglia di dare una mano o semplicemente sentirsi parte di un evento che già si sapeva avrebbe segnato la storia del nostro paese. Nella speranza che potesse avere un epilogo felice.

Per chi non poteva essere presente, addirittura una diretta Rai apposita, seguita da 28 milioni di persone. All’apparenza un vero caso mediatico. Un evento che avrebbe cambiato la storia di fare tv.

Nel 1981 l’Italia è reduce dalle stragi di Ustica, Bologna ed è impantanata tra la minaccia terroristica e quella mafiosa. Lo shock istituzionale provocato dalla pubblicazione della lista dei membri della classe politica appartenenti alla loggia massonica P2 aveva provocato un’onda d’urto immane, tra banche rotte e suicidi eccellenti.

Tutto comincia mercoledì 10 giugno alle 7 e mezza di sera. Alfredino, bambino di sei anni, sta tornando a casa con suo padre Ferdinando e due suoi amici e insieme devono attraversare un campo. C’è ancora luce, così il piccolo decide di restare ancora un attimo fuori a giocare, con il consenso di suo padre.

D’altro canto, che pericoli possono mai esserci in un campo di sterpaglie?

Suo padre non lo sa, ma sotto una lamiera è nascosta una grande minaccia. Questa ha un diametro molto piccolo, tra i 15 e i 33 centimetri circa, e si estende fino a 80 metri di profondità. Si tratta di un posso artesiano. È coperto, perché usato dal contadino che gestisce quel terreno.

Alfredino Rampi
Alfredino Rampi

Senza che nessuna si accorga di niente, Alfredino viene inghiottito dal buio, sprofondando nelle immensità della terra. Di botto sparisce, senza che nessuno se ne renda conto.

Nemmeno il contadino già nominato se ne rende conto, nota soltanto la lamiera spostata. Quando la nota, la rimette al suo posto, con dei sassi sopra.

È la nonna di Alfredino a rendersi conto della scomparsa del nipote. Lei conosceva di quel pozzo, e anche dello spirito avventuriero del bambino. Così, quando alle 21 un emissario della Polizia si reca sul posto e sposta la lamiera, senta le urla di un bambino.

È un grido disperato di aiuto, udito da tutta l’Italia.

Il piccolo Rampi, per via delle pareti del pozzo estremamente fangose, è già scivolato dove calarsi senza imbracatura è impossibile. Più bambino si dimena, più sprofonda nel vuoto, inghiottito dalla terra, a 36 metri di profondità. Quella del salvataggio è una missione al cardiopalma: Alfredino soffre di una cardiopatia congenita, non potrà resistere a lungo nel buio e nel freddo.

Le immagini e le voci di questa storia ci sono ancora, ma la mamma e papà hanno chiesto che di non diffonderle ulteriormente. Per tre giorni, però, riuscirono a fermare l’Italia.

Il racconto che fermò l’Italia

I primi ad arrivare a Vermicino sono i Vigili del Fuoco, che dietro si portano un treppiedi rudimentale, con una tavoletta di legno assicurata a una corda che provano a calare, nella speranza che Alfredino ci si aggrappi. A detta dei suoi genitori è un bambino molto sveglio, capirà subito a cosa serva quella tavoletta. In realtà è il primo tentativo che va male, perché si incastra e non riescono più a tirarla fuori.

C’è anche un problema di comunicazione: Alfredino grida, ma da laggiù non si capisce cosa dica. Quindi una troupe Rai decide di calare dentro un microfono, che a quel punto consente alla madre, Franca Rampi, di parlargli. Gli parla il vigile Nando Broglio, da tanti detto il gigante dagli occhi buoni, che inginocchiato su quel pozzo ci rimarrà per due giorni, nel tentativo di tranquillizzare il piccolo.

Franca Rampi, la madre di Alfredino
Franca Rampi

Alfredino si lamenta, piange, grida e si arrabbia: lui da lì vuole uscire e chiede anche di farlo in fretta.

L’idea principale è di scavare un tunnel parallelo. Da lì aprire un cunicolo orizzontale lungo 2 metri, che consentisse di penetrare nella cavità. Proprio per questo venne subito fatto un appello di emergenza da parte dei Vigili del fuoco di Elveno Pastorelli nel quale si chiedeva una sonda di perforazione.

Mentre si effettua tale ricerca, alle 4 del mattino un gruppo di speleologi ha l’arduo compito di tirare fuori il bambino, guidati da Tullio Bernabei. Il giovane, ancora ventiduenne, di corporatura magra, si offre per farsi calare a testa in giù nel pozzo per cercare di rimuovere la tavoletta incastrata.

A causa però della conformazione del pozzo, i restringimenti non gli consentirono di arrivare a questa. Dopo di lui Maurizio Monteleone, ma anch’egli arrivò a pochissima distanza dalla tavoletta, non riuscendo a prenderla.

Questa costituiva un vero e proprio problema in quanto, ostruendo la luce, non si riusciva a determinare con certezza dove il bambino si trovasse.

L’ultimo a tentare l’impresa tra gli speleologi, mentre i Vigili pompavano ossigeno per evitare l’asfissia, è Fabio Pironi di Bondeno.

Nonostante le otto ore, Alfredino riesce a parlare con i soccorritori, tra cui anche Tullio.

La sonda arrivò solamente alle sei del mattino, ma a causa dei substrati di roccia duri presenti nel terreno, come peperino e laviche, la geologa Bortolani propose di seguire altre strade oltre a quelle del tunnel, ma con molta probabilità il comandante Pastorelli si rifiutò, decidendo di usare solamente la sonda.

La trivellazione comincia alle 8:30 del mattino, e le vibrazioni che provoca riverberano anche nel pozzo, provocando quindi un ulteriore discesa del bambino.

Nel campo si raduna gente da fuori, e muoversi quindi intorno al luogo diventa complesso in primis per i soccorritori. Pian piano si trasformerà in un vero circo, tra venditori di gelati e venditori di porchetta.

Come previsto, alle 10.30 la sonda incontra il primo strato di roccia granitica difficile da scalfire. Quando Alfredino si lamenta per il forte rumore, gli dicono che Jeeg Robot D’Acciaio sta venendo a salvarlo.

Il tunnel verso il vuoto

Verso le 13, i principali giornali annunciano ai TG l’arrivo di una perforatrice più potente, cominciando a fornire aggiornamenti dal vivo della vicenda. Tutti vogliono sapere di Alfredino.

Migliaia di persone si radunano attorno al luogo, rendendo impossibili i soccorsi e sottoponendo chiunque a una pressione psicologica particolare.

Intorno alle 16:00 entrò in azione la seconda perforatrice, più efficace, dopo che la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità e 50 cm di diametro. I tecnici operatori di questa nuova macchina, a causa del sottosuolo duro e compatto, ipotizzarono non meno di 8-12 ore di lavoro per arrivare alla profondità richiesta.

Alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e lo scavo procedeva con difficoltà. Sono le 20:00 quando entra in funzione un terzo impianto di perforazione, mentre continuano ad arrivare i volontari disposti a calarsi nel pozzo. Tra questi alle 23 ci prova Isidoro Mirabella, 52 anni, dal fisico minuto, chiamato “l’Uomo Ragno”.

L’aiuto di chiunque è ben accettato, perché Alfredino risponde sempre meno man mano che il tempo passa. Sotto gli occhi delle telecamere, l’opinione pubblica assisteva all’impotenza dello Stato e della scienza.

Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice raggiunge i 25 metri di profondità. Il piccolo Rampi è sempre più stanco: quando parla con i soccorritori via sonda non riesce a trattenere le lacrime. Sono le 10 quando raggiungono i 32 metri e cominciano a scavare a mano il collegamento, pensando di sbucare a qualche metro di distanza da Alfredino.

Alle 16 arriva anche Sandro Pertini, Presidente della Repubblica. Il suo arrivo convinse le emittenti televisive a proseguire la diretta. Viene trasmessa in diretta la conversazione che questo intrattiene con Alfredino, che diffonde speranza tra le persone. Ma questa dura poco.

Alle 19 riescono ad aprire il foro a 34 metri, ma il bambino non c’è. Probabilmente a causa delle forti vibrazioni è sprofondato ulteriormente. Rispetto alla superfice, Alfredino si trova a 60 metri sottoterra. Quel tunnel realizzato porta solamente verso il vuoto.

L’aiuto di Angelo e Donato

Per la famiglia di Rampi l’unica speranza è che qualcuno si offra per scendere dentro il pozzo. Il primo è Claudio Aprile, ma la discesa era per lui troppo complessa.

Dopo di lui ci provò Angelo Licheri, tipografo di origine sarda, piccolo di statura e molto magro.

Scese nel tunnel in sola biancheria intima, per evitare che i vestiti potessero fare attrito con le pareti del cunicolo. Proprio a causa dei vari cunicoli riportò svariate ferite su braccia e gambe, delle quali porterà i segni per tutta la sua vita.

Angelo Licheri

Angelo, con molte difficoltà, riuscirà a raggiungere Alfredino e a dialogare con lui. Il bambino riusciva solamente a emettere rantoli, segno di una respirazione che stava peggiorando. Licheri gli tolse il fango dagli occhi e dalla bocca, liberandogli le mani e le braccia.

Fallì però nel tentativo di disincastrarlo completamente, in quanto il bambino si presentava rannicchiato con le ginocchia che gli schiacciavano il petto. Provò ad allacciargli l’imbracatura, ma per ben tre volte questa s’aprì. Nello sconforto provò a prenderlo di forza prima sotto le ascelle e poi per le braccia, ma il bambino continuava a scivolare per via del fango che lo ricopriva.

Per 45 minuti Licheri rimase a testa in giù, con il polso ferito rotto e correndo dei rischi per la sua salute mentale, essendo 25 minuti la soglia massima di sicurezza tollerata per restare in quella posizione corporea capovolta.

Rendendosi conto di non poter fare niente per liberare il bambino si fece portare su. Uscito dal pozzo è sanguinante, ricoperto di fango e non in grado di reggersi in piedi.

Licheri non fu l’ultimo. A offrirsi anche nani, esperti di pozzi e persino un contorsionista circense soprannominato “Denis Rock“. Intorno alle ore 3:00, si offrì Pietro Molino, sedicenne di Napoli, ma a causa del dissenso dei suoi genitori le Forse dell’Ordine furono costrette ad allontanarlo dal posto.

L’ultimo a calarsi sarà lo speleologo Donato Caruso, ventiduenne di Avezzano. Come Licheri riuscì a raggiungere il bambino, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che portato per imbracare Alfredino scivolarono via al primo strattone.

Il giovane ci proverà due volte: Caruso si fece sollevare fino al cunicolo di collegamento per riposare, per poi farsi nuovamente calare giù con delle manette legate alla stessa sua corda di sicurezza. I tentativi sono purtroppo inutili, per Alfredino è ormai troppo tardi.

Tornato in superficie, Donato dichiara che il bambino non emette più segnali di vita. Verso le 9:00 del 13 giugno, dopo i tentativi della mamma Franca di mettersi in contatto con il figlio, viene calato nel pozzo uno stetoscopio, al fine di percepire il battito cardiaco del bambino.

Alle 16 alcuni tecnici della Rai calarono giù una piccola telecamera. A circa 55 metri individuarono la sagoma immobile di Alfredino. Per consentire il mantenimento del corpo venne immesso nel pozzo l’azoto liquido a −200 °C.  Riusciranno a recuperare il corpo solo l’11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino, con l’aiuto di una squadra di minatori.

Saranno Angelo e Donato a portare la salma il giorno dei funerali, il 15 luglio 1981, nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura.

Alfredino Rampi

La morte di Alfredino è solo un incidente?

Nel 1982 vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo il proprietario del terreno agricolo nel quale si trovava il pozzo e il titolare della ditta che aveva gestito le attività di sbancamento successive allo scavo. Entrambi verranno assolti, il primo per gravi problemi di salute, il secondo perché aveva già terminato i lavori nel 1981.

Nel febbraio dello stesso anno il pubblico ministero Armati apre un’altra inchiesta in cui, dopo aver raccolto le varie documentazioni sul salvataggio, fa un’ipotesi sconvolgente: Alfredino potrebbe essere stato gettato nel pozzo. In particolare, qualcuno avrebbe potuto calarlo dentro con l’uso di una fettuccia, la stessa che venne ritrovata avvolta attorno al corpo del bambino.

Questo perché la storia avrebbe potuto, così com’è andata, distogliere l’opinione pubblica dagli scandali della P2.

Eppure, Bernabei dichiarò di aver calato lui stesso durante i salvataggi quella fettuccia. A causa dell’insufficienza di prove, nel 1987 l’inchiesta venne chiusa.

Accanto alla bara di Alfredino nel Cimitero del Verano di Roma, verrà sepolto anche il fratello di Riccardo, che nel 2015 all’età di 36 anni morirà per un improvviso infarto.

La mancanza di messi adeguati al soccorso del piccolo Rampi generò una grande riflessione per tutto il paese. Oltre ogni ragionevole misura, Alfredino rimane per tre giorni all’interno di un cunicolo, rannicchiato nonostante la sua cardiopatia, mentre pian piano le forse lo abbandonano. Quando chiama la madre e il padre, rispondono estranei. Tra la sete, la fame e la paura.

In seguito all’incidente di Vermicino e al terremoto dell’Irpinia, istituiranno ufficialmente la Protezione Civile, un sistema di corpi in grado di offrire soccorso in maniera organizzata per sopperire alle emergenze, e fare in modo che non capitino più drammi del genere.

Scritto di Gaia Vetrano


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