SaturDie Ep.15 – Il tragico turbinio di Luca Varani

di Gaia Vetrano
28 Min.

Quando ripensiamo alle nostre giornate, per quanto confusionarie queste possano essere, mai nessuno si sofferma su quanto le scelte prese possano influire su di essa. Probabilmente, anche il nostro protagonista le avrà sottovalutate. Eppure, forse Luca Varani qualcuna di queste l’avrebbe cambiata.

A 23 anni sono molte le cose che la società già si aspetta da te. Università, studiare diligentemente e laurearsi in tempo. Riuscire a battere gli altri nella loro folle corsa verso chi riesce a raggiungere il voto più alto e la linea del traguardo più in fretta. E riuscire a conciliare la propria istruzione – per cui ci viene ribadito che i nostri genitori pagano fior fiore – con la palestra e lo sport.

Mens sana in corpore sano, va sempre ricordato. E guai a chi non si prende cura del proprio corpo. Ma, attenzione, almeno una volta alla settimana bisogna mettere piede fuori casa e non per andare a lezione, ma per uscire con gli amici. Magari ogni tanto andare a letto con qualche coetanea. Così da potersi addormentare sereni e soddisfatti della propria vita.

Ma siamo proprio sicuri che vada così per tutti? Per un giovane di origine macedoni in un’Italia del 2016 non è forse così facile. D’altro canto, quando leggiamo i racconti dei rifugiati, il tempo durante le proprie giornate è impiegato telefono alla mano.

Si rimane assorti davanti a uno schermo, niente che possa dare l’idea di star godendo a pieno della propria esistenza.

Macedonia

E su di loro il silenzio, i cui sinonimi sono molteplici. Come calma, quiete, ma anche assenza di rumori. Perché non ci si interroga mai su cosa voglia dire avere 23 anni ed essere un giovane proveniente dalla Macedonia ora adottato da una famiglia romana. Nessuno di noi sa cosa voglia dire nascere sapendo di vivere in un paese dove – forse – non verrai mai accettato.

Quando Luca Varani viene portato via dal campo profughi, spera che non sia così.

In contesti di degrado quali quelli in cui è cresciuto, è facile perdersi al bivio. Scegliere la strada all’apparenza più semplice, ma per cui viene sempre chiesto qualcosa di più grande in cambio. D’altro canto, la violenza è sempre stata il rifugio per chi è condannato a essere abbandonato. E scommetto che in pochi si fermino durante le loro giornate a riflettere da dove questa provenga.

Come un essere umano possa staccare l’interruttore della propria coscienza e smettere di porsi quesiti sulle proprie azioni e sugli effetti che queste possano avere sugli altri.

Come si possa imbavagliare il proprio raziocinio e costringerlo a stare chiuso in un piccolo ripostiglio nei meandri della propria mente, da cui non può scappare. Da dove i sensi di colpa non possono sentirsi.

Forse, a queste domande non possiamo e non potremo mai dare una risposta, ma possiamo interrogarci sulle nostre vite, sulle azioni da noi compiute che forse avremmo potuto evitare. Parole dette, persone conosciute.

È possibile ricondurre la somma dei propri errori a uno solo? Noi ci siamo posti questa domanda e oggi vi racconteremo una storia su cui, ancora oggi, vi sono troppi perché. Per farlo abbiamo l’aiuto delle ragazze di Criminologia in Pillole.

A volte, l’intelletto umano fa grossi scherzi. Chi da fuori può sembrare di bell’aspetto e pieno di amicizie, dentro può celare uno squilibrio mentale molto più grande. La perversione di chi ha già tutto, tranne la percezione di avere il potere. Quell’illusione effimera, sfuggevole. Di avere il controllo su ciò che di più difficile vi è da sottomettere: la natura umana stessa.

Nella Divina Commedia, Ulisse viene punito per aver oltrepassato le Colonne d’Ercole. Il confine della conoscenza umana. Nulla può placare la sua «smania», che lo spinge alla morte.

Dante e Virgilio

La storia di Luca Varani è un racconto di un «ardore» radicale e implacabile. Un destino bruciante di vita interrotto da due anime divorate dai vizi umani, convinte così di «divenir del mondo esperte». Nel tentativo di voler penetrare con profondità le cose, alla fine arriveranno anche loro al naufragio.

Perché il crimine, anche quello più efferato, non è mai, come si potrebbe erroneamente credere, una regressione dell’umano alla ferocia primitiva dell’animale.

Com’è noto, a Roma già durante il mese di marzo, si respira la primavera.

Manuel Foffo ha ventotto anni. Come tutte i racconti gialli che si rispettano, si sente incompreso dalla figura paterna. È un avvocato rigido e poco affettuosa nei suoi confronti. Eppure, niente di tutto quello che vi stiamo per raccontare ha a che fare con la finzione. 

A Roma, così come in tutto il resto del paese, marzo è un mese notoriamente ventoso. Durante ogni ora del giorno soffia una brezza fredda che, se accompagnata da un abbassamento delle temperature, ricorda a tutti l’inverno. Basta però guardare gli alberi pieni di foglie e lasciare che la luce bagni la pelle per sapere che l’estate sta per arrivare. Per ogni ventenne è un momento di passaggio, che segna la ripresa dell’ultimo semestre di lezioni. 

Manuel Foffo

Per molti guidare è liberatorio. Roma durante le prime ore del mattino è un via va di macchine, ma di pomeriggio le strade sono un po’ più libere, tanto da consentire di poter girare con più serenità. con i finestrini abbassati, la musica a tutto volume e il vento tra i capelli.

Eppure, Manuel non è così sereno. Mentre suo padre guida non può fare a meno che guardare fisso davanti a sé, come se la decisione più giusta si delineasse alla fine della rotonda o dell’incrocio. Tra le mani, appoggiate sul grembo, stringe un lembo della sua maglietta. Ogni tanto si gira verso il finestrino, ma non proferisce alcuna parola.

Quando il babbo gli pone qualche domanda, risponde solo se strettamente necessario. Lo ascolta canticchiare qualche motivetto passato alla radio, ma nulla sembra in grado di sciogliere il nodo che ha in gola. Che gli rende impossibile persino respirare.

I due sono diritti verso il loro appartamento in via Iginio Giordani 2, da cui Foffo si era allontanato fisicamente, ma dove in quel momento la sua mente era intrappolata. In una morsa da dove è difficile scappare, o evadere.

Manuel sa di non aver premeditato nulla di ciò che aveva compiuto. Non si ritiene colpevole. Ma quando guarda il profilo del padre, sa bene di non avere scampo. Che deve essere lui a raccontare la verità. Prima ancora che siano gli altri ad additarlo come ciò che lui non è.

La sua non è una storia di rabbia, vendetta o rancore. Nulla farebbe pensare a un gesto spinto da un movente particolare. Il suo racconto è quello di un efferato e inaspettato turbinio. Che distrugge senza pietà ciò che ha intorno. Una spirale di brutale violenza, che porta con sé non solo l’innocenza di due ventenni, ma la vita di un’innocente.

Quello di Manuel Foffo è un turbine di violenza che stravolge la città di Roma, il cui simbolo è la lupa su uno sfondo arancione e rosso. Rosso come il sangue.

Nel suo appartamento, quando la polizia farà irruzione al suo interno, niente dà l’impressione che si sia appena concluso un finesettimana tra amici. Per terra c’è sporcizia dappertutto. Tracce di cocaina sui mobili, bottiglie vuote buttate a destra e a sinistra. Poi i divani storti, i cuscini buttati sul pavimento.

Qualche quadro storto e dei sacchi dell’immondizia accatastati in un angolo. Nel lavabo dei coltelli vagamente puliti, immersi nell’acqua. Nella camera da letto, sul letto matrimoniale disfatto, avvolto in un piumone arancione, trovano un corpo straziato. Con ancora un coltello conficcato nel petto, sul viso fulminato l’ultimo istante di vita.

In sottofondo, la splendida Dalida sta cantando “Ciao, amore ciao”.

Lentamente, Manuel solleva il volto. Sta tremando, le palpebre non sono perfettamente spalancate e gli occhi sono lucidi.

In meno di un istante dà il via alla sua confessione. “Abbiamo ucciso una persona e l’abbiamo torturata”. Il suo nome è Luca Varani.

Chi è Luca Varani?

23enne apprezzato da tutti, di corporatura esile, occhi neri e sempre con un sorriso disarmante.

A volte un po’ irruento e ingenuo. Cresciuto a Roma ma di sangue macedone: Luca è infatti sopravvissuto all’indigenza nel suo paese di nascita, logorato dalla guerra. Adottato dalla lupa alla tenera età di 4 mesi vive in periferia con genitori venditori ambulanti che spesso accompagnava nella vendita di dolciumi per sagre e fiere in giro per Roma e provincia.

Come in tutte le storie d’amore dei film, conosce la sua dolce metà, Marta Gaia, all’età di 14 anni. Con la famiglia adottiva sempre presente e di supporto, Luca cresce come un bambino amato e ben voluto da tutti. Era un ragazzo giovane con il desiderio di sposarsi e di vivere con la sua ragazza, anche se consapevole delle difficoltà economiche con le quali ha sempre convissuto.

Durante la sua vita si è sempre sentito in credito rispetto al paese in cui si è trasferito, come se fosse sempre in attesa di un riscatto che però non arrivava mai.

In seguito alla bocciatura all’istituto tecnico, si iscrive e frequenta attivamente la scuola serale Einstein-Bachelet di Roma, in cui stringe un rapporto di fiducia con uno dei suoi professori, Davide Tiffoli, che lo descrive come “un ragazzo semplice, ingenuo e buono come pochi”, che arrivava a scuola sempre in anticipo e passava il tempo prima dell’inizio delle lezioni a giocare con il suo pallone.

Racconta di lui e del tempo passato insieme alla scuola serale, che Luca frequentava distinguendosi per le sue abilità soprattutto in matematica. I due avevano un bel rapporto, solido e di profonda stima e rispetto. Ancora oggi rammarica il fatto che non sia riuscito a prendere quel diploma che prometteva sempre di ottenere “prima o poi”.

Dopo aver lasciato le scuole serali decide di trovarsi un impiego e iniziare a lavorare in una carrozzeria. Frequenta di tanto in tanto i ragazzi della ‘compagnia’ del Battistini, un quartiere periferico in cui Luca passava gran parte del suo tempo.

Qua, lontano dallo stile di vita abituale, aveva la possibilità di condurre una sorta di doppia vita segreta, nella quale aveva scelto di far uso di droghe e prostituirsi con altri uomini per guadagnare altre entrate.

Luca Varani e Marta Gaia

Questo stile di vita lo costringe anche ad assentarsi per ore da lavoro, inventando delle scuse con il suo datore di lavoro e con la sua famiglia per giustificare le sue assenze.

Uno stile di vita per cui, dalla sfera mediatica, sarà vittima di “victor blaming”. Può però un’esistenza turbolenta giustificare una violenza del genere? A 23 anni, Luca Varani metterà piede nell’appartamento di Manuel Foffo, da cui non ne uscirà mai più.

La spirale di violenza di Manuel e Marco

Manuel Foffo e Marco Prato hanno rispettivamente 28 e 29 anni e, quando il 5 marzo 2016 si ritrovano entrambi a casa del primo, i due non avevano una conoscenza di lunga durata, ma si erano incontrati circa due mesi prima nella notte del Capodanno del 2016 tramite amici in comune, ad una festa organizzata dallo stesso Marco Prato.

Il primo, descritto dal padre come un bambino di intelligenza superiore alla media, amante della lettura fin da piccolo e grande studioso, nonostante ciò, non conclude gli studi in giurisprudenza. Dai suoi racconti si evince che la passione per la materia era scemata con il tempo a causa dell’imposizione del padre di proseguire i suoi studi per portare avanti lo studio di famiglia.

Il rapporto con il padre è un filo conduttore che si ripresenta durante le confidenze con l’altro autore del reato, Marco Prato, in merito al fatto che Manuel si è sempre sentito incompreso dalla figura paterna, rigida e poco affettuosa nei suoi confronti.

Dalle descrizioni di amici e conoscenti emerge che Manuel Foffo è sempre stato una persona taciturna, ombrosa e riservata con relazioni instabili.

Durante il processo Manuel Foffo ha presentato al giudice un sostanzioso fascicolo difensivo che comprendeva al suo interno la documentazione inerente accertamenti clinici che sottolineavano la sua incapacità di intendere e di volere. La tesi sottolineava come l’uso importante di alcol e droghe da parte di Manuel Foffo avesse potuto scemare o limitare grandemente la sua capacità di intendere e di volere e quindi, di conseguenza, non fosse imputabile per il reato commesso.

La relazione psichiatrica sul Foffo evidenziava che le sue alterazioni neurobiologiche di tipo irreversibile erano la conseguenza del consumo cronico di sostanze in una fascia d’età che riguarda lo sviluppo del cervello.

Durante i processi, però, viene confutata la cronica intossicazione da parte del Foffo, che non ha presentato alcun tipo di alterazione della senso-percezione come conseguenza dell’assunzione delle sostanze.

Viene inoltre evidenziata la sua capacità di intendere e di volere in quanto lo stesso aveva volontariamente e consapevolmente deciso di assumere quelle sostanze in quell’occasione, probabilmente per assecondare ancora una volta la sua ricerca di piacere.

Marco Prato è un ragazzo creativo e affascinante, alto e di buona forma fisica. Studente universitario ormai fuori corso, si guadagna da vivere organizzando serate ed eventi in vari locali alla moda della Roma bene. Riferisce di non essere mai stato adatto ad un lavoro standard, ma di aver sempre avuto sogni molto grandi con difficoltà a gestirli.

Marco Prato

Al tempo dell’omicidio si trova ostaggio di una gabbia fatta di pensieri e preoccupazioni, che aveva come fulcro la sua identità di genere. Ragazzo dal carattere complesso, nasce a suo dire “come bambina nel corpo di un bambino”, è cresciuto in una famiglia benestante dove era preponderante la figura femminile con la quale però aveva un rapporto difficile. Per anni si è diviso tra la Francia, terra d’origine della madre, e l’Italia.

L’enigmatico rapporto con la sua sessualità lo spinge a ricercare in continuazione qualcosa di diverso, di spingersi sempre oltre il limite. Si dichiara attratto da persone del suo stesso sesso, ma nel corso della vita ha avuto spesso frequentazioni con donne.

Durante gli interrogatori parla di sé al femminile e cambia il genere in base allo stato d’animo del discorso che affronta.

Del suo primo incontro con Foffo racconterà  che

Io e Foffo ci siamo conosciuti a Capodanno. Sono stato la sua bambolina. Foffo rifiutava il fatto che io fossi maschio. A gennaio voleva che io fossi conciata bene, mi ha portato a farmi truccare per bene da donna con plastilina, trucco, cerone, tacchi... Diceva ai truccatori che parrucca dovevano mettermi, bionda o bruna, lunga o corta... Abbiamo passato quattro giorni così, a fare sesso. E quando mi passava il trucco, mi riportava sempre da un altro truccatore o truccatrice per riconciarmi. Abbiamo fatto uso di alcolici e cocaina. Lui mi portava anche a battere. Aveva dei progetti, voleva guadagnarci su. Da gennaio a marzo, oltre a Foffo, avrò avuto un altro rapporto con un omosessuale, noioso, e un rapporto sessuale con un altro ragazzo eterosessuale

La psichiatra interpellata all’inizio delle indagini lo definisce seduttore, non evidenzia un orientamento depressivo dell’umore ma, al contrario, un’adeguata stima di sé.

La sua sindrome depressiva, che spesso lo portava a fare un uso prolungato di alcol, droghe e psicofarmaci, ha acceso in Manuel Foffo la curiosità del suo stravagante modo di fare, portandolo a lasciarsi trascinare nella realizzazione delle fantasie più contorte di Marco Prato.

La notte del 5 marzo

Terminata una festa, Manuel propone di andare nel suo appartamento per proseguire la serata. Qui lui e Prato rimangono rinchiusi per i successivi quattro giorni, a fare uso smodato di cocaina e a raccontarsi a vicenda: proprio in questa occasione iniziano ad aprirsi e a raccontarsi come non avevano mai fatto con nessuno.

Manuel racconta della relazione con suo padre, di quanto non si sia mai sentito considerato lui, sottostimato e sempre messo in secondo piano rispetto al fratello Roberto. Il padre, ai suoi occhi, è una figura rigida dalla quale non si è mai sentito ascoltato ma, al contrario, costretto a dover plasmare la sua personalità in base al volere della figura paterna.

A risultare fatali non sono semplicemente queste due personalità prese singolarmente ma l’incontro tra le parti oscure e tormentate di entrambe, che finiscono per entrare quasi in simbiosi l’una con l’altra, rinforzandosi a vicenda. 

Sotto l’effetto di una sostanza si entra infatti in uno stato di euforia tale che la persona percepisce un senso di accresciuto benessere, fiducia nelle proprie capacità e soprattutto una ridotta percezione del rischio e delle conseguenze negative dei propri agiti devianti.

Nei loro incontri i due innescano fin da subito una sorta di “contagio psichico”, dando voce alle loro perversioni più profonde fino ad arrivare a parlare di possibili violenze sessuali. Questo consiste in una trasmissione di disordini psichici che avviene da un individuo ad un altro in circostanze che favoriscono la suggestione, fino a sviluppare dei deliri.

Questi si concentrano sulle violenze che partono inizialmente da pensieri perversi fino ad arrivare all’acting out, ovvero l’espressione dei propri vissuti emotivi conflittuali attraverso la realizzazione tramite azione. Le violenze, quindi, inizieranno a concretizzarsi prima tramite la sola fantasticazione e descrizione, per poi passare alla visione di video pornografici di stupri, anche su minori, e infine arrivare alla realizzazione della stessa tramite il vero e proprio agito delinquenziale.

Luca Varani in questo contesto risulta essere una “vittima ideale” per i due giovani uomini, infatti in questa vicenda mostra possedere gran parte di quelle che la vittimologia descrive come “caratteristiche di vulnerabilitàdovute alla classe sociale di appartenenza ai loro occhi inferiore; alle debolezze economiche, in quanto Luca non essendo nato e cresciuto in una famiglia benestante era costretto a lavorare e a prostituirsi per avere introiti.

Ma anche le abitudini di vita del ragazzo; la sua costituzione fisica e la mancanza di formazione tale da permettergli di comprendere la pericolosità dei due soggetti.

Tuttavia, risulta anche una vittima “casuale” e a dimostrazione di ciò vi è il fatto che i due complici inviano lo stesso messaggio di invito alla loro “festa” a molte persone, tra cui anche la vittima, ma soltanto Luca asseconda i loro deliri criminali, ignaro della serata che lo aspetta.

Prima dell’omicidio i due invitano nell’appartamento diversi amici: del primo si impossessano del bancomat e iniziano a prelevare soldi contro il volere del suo proprietario. Il secondo mal capitato viene invece drogato e in questa circostanza Foffo e Prato provano a coinvolgerlo in rapporti sessuali dai quali, però, riesce a sottrarsi. Infine, scelgono di chiamare la loro vittima mettendo in atto una vera e propria mattanza alla quale, però, non riescono a restituire un significato.

Entrambi finiranno per perdere il controllo sulle loro azioni fino al punto che non saranno più loro a governare la situazione che hanno creato ma sarà la situazione a governare loro.

In seguito all’omicidio, scivolano nel sonno a pochi centimetri dal cadavere e al loro risveglio entrano nel panico più totale. Soltanto in quella circostanza Marco valuterà l’ipotesi di togliersi la vita e Manuel cercherà di aiutarlo individuando l’hotel nel quale sarebbe avvenuto il suicidio.

Il rimorso per l’accaduto porta Marco Prato a tentare il suicidio con sonniferi mescolati all’alcol, ma viene trovato in tempo dalle forze dell’ordine sulle note della canzone “Ciao Amore Ciao” di Luigi Tenco nella camera numero 65 dell’Hotel San Giusto a Piazza Bologna.

Queste le parole trovate su un foglio:

“Perdonatemi, non riesco. Sono stanco, una persona orribile. Ricordate solo il bello di me. Vi amo.

Fate festa per il mio funerale, anche se vorrei cerimonia laica, fiori, canzoni di Dalida, bei (sottolineato due volte) ricordi: una festa! Dovete divertirvi!!

Chiama Private & Friends, il centro capelli a piazza Mazzini per rigenerarmi la chioma prima di cremarmi. Mettetemi la cravatta rossa, donate i miei organi, lasciatemi lo smalto rosso alle mani. Mi sono sempre divertito di più ad essere una donna.

Organizzate sempre, una volta alla settimana o al mese, una cena o un pranzo con tutti i miei cari amici e amiche che ho amato tanto. Fate sempre festa, sentitevi Dalida ogni tanto. Mettete “Ciao amore ciao” quando avete finito la festa per me e ricordatevi tutti insieme i miei sorrisi più belli.

Buttate il mio telefono e distruggetelo insieme ai due computer, nascondendo i miei lati brutti. Tenete alto il mio nome e il ricordo, nonostante quel che si dica. Non indagate sui miei risvolti torbidi, non sono belli

I processi

Quando Manuel Foffo si rivolge alle forze dell’ordine gli viene contestato concorso in omicidio aggravato e la confessione dura l’intera notte

Avevamo il desiderio di fare del male a una persona qualsiasi. Questa cosa è maturata nelle nostre menti nella notte di giovedì

Lui ricorda di aver dato coltellate al collo, si è trattato di una morte lenta per cui la vittima avrebbe sofferto tanto. Ore di torture, in cui Luca Varani è stato colpito a più riprese con coltelli e martello e lasciato agonizzante per ore intere.

Lo abbiamo davvero torturato. Ricordo solo che la morte è sopravvenuta dopo molto tempo e Luca ha sofferto molto. Non ricordo quante coltellate aveva alla gola, è stato Marco che ha inferto la coltellata al cuore lasciando dentro il coltello, Luca era ancora vivo prima di quella coltellata

Subito dopo viene portato in custodia cautelare e posto in isolamento giudiziario nel Carcere di Regina Coeli a Roma per essere poi condannato con sentenza definitiva a 30 anni di reclusione.

Probabilmente il motivo principale per cui il Foffo si sia fatto coinvolgere nella commissione dell’omicidio è la debolezza e la noia. Davanti a una figura manipolatrice come quella di Marco Prato, un soggetto particolare, segnato da alcol e dipendenze e dalla costante ricerca del piacere in ogni sua forma, Manuel Foffo ha dimostrato una forte incapacità di sapersi arrestare davanti ad un atto così spregevole.

Dagli interrogatori emerge la confessione di Foffo davanti agli inquirenti: “È iniziato tutto da un gioco, volevamo uccidere qualcuno solo per vedere che effetto faceva...”, come per sottolineare la sua curiosità.

Una volta trovatosi nella situazione, però, Foffo ha riferito agli inquirenti di non aver provato alcun piacere, ma di esserne invece rimasto deluso:

Mentre lo colpivamo non provavo piacere però non ero in grado di fermarmi anche se ho avuto dei momenti in cui provavo vergogna per quello che facevo

Marco Prato è morto suicida nel carcere di Velletri nel 2017, poco prima dell’inizio del processo. Si è tolto la vita soffocandosi mediante un sacchetto di plastica, in attesa di essere processato per l’omicidio di Luca Varani. Tuttavia, non si è trattato del primo episodio. Marco Prato aveva già tentato il suicidio in passato perché vittima di bullismo durante l’infanzia, per questo era stato seguito da una psichiatra.

Le lettere scritte prima di morire sembrano disposizioni testamentarie in cui però chiede un funerale estroso, con musica, cravatta rossa e smalto alle mani. Spiegando inoltre che per lui la vita era diventata insopportabile e che aveva scoperto cose di sé e del mondo che non riusciva a sopportare.

In una notte di inaudita violenza ci lascia Luca Varani. Una storia dove non servono indagini per ricercare le più grandi ragioni di un tale gesto. È realmente tutta colpa della droga?

Scritto da Gaia Vetrano in collaborazione con Criminologa in Pillole


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