Nella storia del crime italiano, quello della Vedova Nera è uno dei racconti meno conosciuti. Eppure, nella narrazione della violenza sulle donne, Milena Quaglini è un nome che spicca.
Ma facciamo un passo indietro, di un bel po’ di anni. Quando la Grecia non era costituita da città, ma da polis. Quando la guerra era un affare sporco, per soli uomini. Le donne non sono fatte per sporcarsi le mani, né con il fango né con il sangue. Eppure, le dispute più grandi sono combattute proprio a causa dell’amore – o del possesso – del virgineo candore di una di queste.
Ritornare agli anni in cui la donna era custode del focolare e della prole. Un oggetto di trattative, venduta in matrimonio al primo ricco offerente. Dobbiamo fare un passo indietro a quando non esisteva il concetto di femme fatale. Di moglie ribelle e adultera. Di assassina.
Quando Agamennone vede per la prima volta Clitemnestra, matrona greca sposata con Tantalo, rimane folgorato dalla sua beltà. Dai ricci capelli neri, la pelle bianca come il latte. Il fisico sodo, le dita esili. Lui, re dell’Argolide, la vuole per sé. Così, come se fosse la ricompensa migliore di un bottino, uccide il marito e il figlio. Poi, la violenta.
Agamennone è un uomo moderno, da un ego smisurato, per quegli anni. Sempre pronto ad anteporre il suo lavoro da guerriero alla sua famiglia e alla sua casa.

Clitemnestra ha ben poche ragioni per amare il suo nuovo marito. Un uomo che, per la narrazione dei suoi contemporanei, rimane un combattente che, per volere del fato, ha la sfortuna di incontrare la scellerata che ne causerà la morte.
Il mito ci porta attraverso una storia disturbante, quella di una donna sottratta dalla sua casa e dalla sua terra e diventata premio di un uomo pronto a partire per la guerra. Ma, prima della volta di Troia, Agamennone compie un crimine che viene dimenticato da tutti, tranne che da Clitemnestra stessa: uccide Ifigenia, sotto consiglio dell’oracolo Calcante.
La prole delle violenze che aveva subito perde la vita per favorire una guerra da lei non voluta.
La flotta greca, grazie al sacrificio di Ifigenia, può finalmente partire da Aulide. Un delitto mosso per ottenere il favore di Artemide, divinità contro cui Agamennone aveva compiuto un torto: dopo aver ucciso una capra, si era vantato di essere un cacciatore più bravo della Dea.
Ifigenia, tratta in inganno, agghindata per sposarsi con il bellissimo Achille, muore sotto i flebili raggi del Sole a causa di un atto di tracotanza da lei non compiuto. La guerra di Troia è più importante di lei.

Eppure, questo darà vita a un moto di odio che divorerà l’animo della madre. A Clitemnestra, per ragioni di guerra, viene sottratto il frutto del suo ventre. Ma lei non è la moglie devota, che abbassa la testa davanti ai soprusi di un marito che, mentre lei patisce il lutto, sfoga i suoi ormoni in guerra.
Tornato da Troia, tronfio di orgoglio per la vittoria, porta con sé la sua nuova concubina: Cassandra, figlia del re di una città ormai rasa al suolo, Priamo.
Ma anche Clitemnestra è una donna moderna. Certo, non per i suoi contemporanei. No, lei non accetta il suo ruolo di fedele compagna, che sta zitta mentre il marito fa ciò che vuole, e aspetta trepidante il suo ritorno. Non ha niente a che vedere con Penelope, che attende per vent’anni Ulisse, mentre questo vaga per il Mediterraneo, divertendosi all’occorrenza con Circe e Calipso.
Dopo il gesto di estremo egoismo del marito, Clitemnestra prende come amante il cugino di questo, Egisto. Fa allontanare il figlio, Oreste, e dà in sposa Elettra a un contadino.
Ai giorni nostri, sarebbe forse Agamennone un uomo determinato e ambizioso, mentre Clitemnestra una malvagia adultera? Forse una cagna, termine con cui nell’Antica Grecia le donne venivano etichettate. Oreste ed Elettra, fratello e sorella di Ifigenia, difendono comunque il padre.
Agamennone sceglie di abbandonare la famiglia e le responsabilità da questa dovute ma viene comunque legittimato e protetto dai figli.
Clitemnestra, in un periodo di odio verso il genere femminile, decide di non chiudere gli occhi davanti ai soprusi subiti. Abbandona il luogo dove la società la imprigiona, il gineceo, e rinuncia a essere madre. Si stacca dai suoi figli e medita la vendetta, compiendo la più grande nefandezza.
Adornata da maschi alpha, i cosiddetti uomini eroi, sempre accompagnati dalla spada. In un’epoca dove alle donne spettava solo l’uso dei mestoli da cucina, o del telaio, Clitemnestra è la prima a impugnare un’arma.
Al suo rientro, Agamennone non trova una moglie amorevole, felice di vederlo. Ma un inganno. Lo stesso nel quale era caduta Ifigenia. Nella casa in cui dovrebbe essere al sicuro, lontano dalla guerra, viene pugnalato da Clitemnestra in bagno. Fuori, nella sala principale, i suoi compagni lo attendono per un banchetto in suo onore, destinati anche loro a morire.

Clitemnestra lo decapita con l’aiuto di Egisto, infliggendo da sola l’estrema condanna per le sue colpe. Prima tra tutte quella di averla scelta come compagna e averla sottratta da una vita felice con Tantalo.
Persino in punto di morte, Clitemnestra non cambierà mai idea. Non si pentirà della sua scelta. Sarà suo figlio, Oreste, frutto del suo seno, a ucciderla. Una madre adirata. Il sacrificio di una innocente. La morte di un guerriero – talvolta padre – che aveva a sua volta portato devastazione nella vita di molte altre persone. E, infine, la vendetta. Una famiglia divorata dal desiderio di vendetta.
Milena Quaglini la conosce molto bene. Ha provato sulla sua pelle il brivido – forse adrenalinico – che si prova quando si crede di avere il totale potere su una persona.

La sua è una storia particolare. Segnata da eventi atipici, che mai nessuno identificò come seriali.
Un racconto che inizia dalla fine, dal carcere di Vigevano.
Da una semplice cella, divorata dall’umido. Dove il sole entra debolmente, come a dover chiedere il permesso, dalla piccola grata sul tetto. Le cui pareti, bianche e color crema, sono ormai più scure, per via dello sporco e della polvere.
Milena vive lì ormai da sei lunghi anni. Conosce quel luogo a fondo. Le è familiare il suono dell’acqua che scorre nelle tubature. Ricorda a stento cosa voglia dire vivere all’aria aperta, con la pelle baciata dal Sole, che ora può vedere a stento. Le rimane solo la possibilità di ascoltare dalla finestra il rumore del vento.
Così come le manca il bruciore e il sapore dell’alcol, da cui è dipendente. E l’odore metallico del sangue.
A stento riesce a riascoltare, nel suo cervello, le vivide memorie delle sue due bimbe, che male si accoppiano con le urla di disperazione e di follia che, ogni tanto, echeggiano per i corridoi.
Se questa è vita Milena non lo sa. Ma sa bene che non può scappare. Sa di non essere un’assassina perché non si rende conto di uccidere. Eppure, ciò che la attende è il vuoto.
La sua storia inizia dalla fine. Dalla notte del 16 ottobre 2001 quando, la guardia carceraria, entra nella sua cella e la trova appesa al tetto con un lenzuolo stretto al collo. Il suo battito cardiaco è troppo lento da permetterle di sopravvivere. La portano in pronto soccorso dove ammira per l’ultima volta le angosce gorgogliare nella sua mente e prendere il posto della vita e del respiro.
Milena Quaglini, in punto di morte, ricorda solo le crisi isteriche ed epilettiche, le paralisi agli arti e le perdite di memoria di cui soffre.
Ma ancora più importante, conosce soltanto cos’è la vendetta. Un piatto che va servito freddo, come la lama di un coltello.

Il confine tra il bene e il male
Il senso di colpa è un sentimento potente. Soprattutto quando è pesante e prepotente come un’incudine sulla coscienza. A maggior ragione se si è consapevoli del fatto che il delitto commesso non è stato premeditato ma che non c’è alcuna via di scampo.
La confessione può diventare un punto da cui ripartire per trattare la pena. Allo stesso tempo, l’omicida sa che è stato costretto a compiere quel gesto. Che la vendetta era necessaria. Forse, quando la Quaglini decise di chiamare la Polizia per denunciarsi, lo fece proprio per colpa di questo.
Forse, nel 1957, così come oggi, per l’uomo risulta confortevole distinguere nettamente il bianco dal nero. La vita dalla morte. Ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Vittime da carnefice. Eppure, la linea che li separa può risultare terribilmente sottile. Così come quella che delinea amore da dipendenza.
Quando si apre il dizionario e si cerca una definizione di serial killer, ciò che ne si evince è un assassino che non compie un omicidio isolato ma che, al contrario, ne compie una serie in un arco di tempo più lungo.
Milena Quaglini può solo risultare memento e perfetta rappresentazione di ciò.

Nel 1957 nasce a Pavia una bimba sfortunata. Frutto di un’esistenza difficile, fatta da abusi, violenze e botte. Quelle che le infliggeva il padre alcolizzato. La madre è fin troppo debole di carattere per tener testa alla morbosa gelosia del marito, che la tiene bloccata a casa, e le restituisce solo schiaffi e lividi.
A condividere questo destino sono in tante. Eppure, Milena ha il coraggio di scappare e, a 19 anni va via di casa, dopo essersi diplomata in ragioneria.
Si stabilisce tra Como e Lodi, dove lavora saltuariamente come cassiera, badante e donna delle pulizie. Si mantiene a fatica, ma passa comunque dei mesi felici al fianco di un uomo gentile e premuroso, con cui decide di sposarsi e di mettere al mondo un figlio, Dario. Milena è innamorata: sono anni di tranquillità, con una figura stabile che la capisce.
La loro favola è tuttavia destinata a durare poco. Il marito si ammala infatti di diabete e muore in poco tempo. Milena rimane sconvolta da questo lutto, che le porta via la tanto agognata felicità. Ora le sembra irraggiungibile. Solo l’alcol può avvicinarla a quella sensazione di allegria che ormai risulta essere solo un ricordo.
Nuovamente è costretta a spostarsi e a cambiare comune di residenza, portando con sé un bagaglio di sofferenze e traumi sempre più grande.

Stavolta a San Martino Siccomario, dove conosce e si sposa con Mario Fogli, un camionista con anche lui problemi con l’alcol. Una persona prevaricatrice, ossessiva e patologicamente gelosa, tanto da costringere Milena a lasciare il lavoro, perché spaventato dalla possibilità che questo potesse tradirla con un suo collega. “Donna che lavora, donna che tradisce” diceva Fogli.
Mario è molto aggressivo, e riversa il suo carattere pessimo anche sul posto di lavoro, venendo cacciato più e più volte. Si sente un fallito e sfoga la sua frustrazione sulla Quaglini.
Con lui litiga spesso: per il lavoro, per la gestione del denaro, o riguardo il figlio Dario, che Mario caccia di casa. In comune avevano soltanto l’attivismo politico con la Lega Nord e due figlie. Poi rimangono solo le botte, le umiliazioni e i problemi economici. Solo tramite la pittura, Milena riesce a sfogare le sue sofferenze. Tale e quale a sua madre, pure lei subisce. Lei è il vero problema, lei la sbagliata, non Fogli.
Sei una lurida alcolizzata, non sai lavare, stirare, pulire o educare i tuoi figli. Per di più, l’ansia del futuro la tormenta. Mario non riesce a garantire una stabilità economica alla Quaglini così, quando gli ufficiali giudiziari si presentano per richiedere un pignoramento dei beni sull’uscio del loro appartamento a Broni, in provincia di Pavia, decise di separarsi e di andare ad abitare ad Este, con le due figlie più giovani.
Milena ha bisogno di soldi e inizia così a lavorare in una palestra e come badante per l’anziano Giusto Dalla Pozza, un ottantatreenne apparentemente gentile, che le presta 4 milioni di lire. Quando le viene offerta questa cifra, la donna accetta immediatamente.
Ciò che la Quaglini ignora è che vi è sempre un confine oscuro tra la bontà e la cattiveria delle persone. Ma sta per averne un assaggio sulla sua pelle.
La verità occulta
Il sole è sorto da un pezzo sulla cittadina di Este. Sono le 18.30 del 25 ottobre del 1995 e ancora fa un freddo tollerabile. Qualcuno sta andando in chiesa per la messa, qualcun altro fa merenda in un bar, altri si dirigono al lavoro.

Tra il grande via vai di macchine e persone per le strade, anche un’ambulanza, che si dirige verso l’appartamento di Dalla Pozza, in via Schiavino numero 8. Nell’ingresso per terra macchie di sangue, che proseguono per tutte le scale. Poi, il corpo del padrone di casa, riverso a terra supino. Il cranio fracassato e la materia grigia che fuoriesce da questo.
La casa è nel caos: sangue ovunque, dall’ingresso alla cucina. Segni di colluttazione dappertutto. E poi vestiti accatastati sul materasso, il comodino spostato e la finestra in vetro in frantumi. Risulta verosimile come, dalle indagini effettuate sulle macchie rinvenute sugli stipiti, Giusto abbia sbattuto la testa contro uno spigolo e sia successivamente caduto.
Sugli indumenti di Dalla Pozza si trovano delle tracce di sangue coagulato, presenti anche sulle pareti. Come se qualcuno lo avesse trascinato. Si presume, dal fatto che vi sono dei segni anche sulla mensola all’ingresso, che la vittima sia riuscita ad alzarsi ma non a chiedere aiuto. Forse, barcollando, è a stento arrivato sull’uscio, cascando poi dalle scale.
Dalla Pozza viene portato in ospedale in coma. Morirà qualche giorno dopo. La donna ad aver dato l’allarme è proprio la badante, Milena Quaglini.
Come racconta ai Carabinieri, l’anziano aveva spesso problemi di deambulazione. Quando è arrivata a casa sua per cucinargli la cena l’ha trovato così. Secondo la sua testimonianza, sul tavolo della cucina si trovava una chiave inglese a pappagallo. Forse, l’arma del delitto.

La sua versione dei fatti insospettisce però gli inquirenti: non risultano le chiamate che avrebbe effettuato al 113. Inoltre, racconta di non aver visto Giusto per almeno un paio di giorni, nonostante quanto affermino gli altre condomini, che la vedono nel palazzo addirittura il ventiquattro ore prima.
L’incuria, la sporcizia, il disordine, fanno insospettire tutti sul ruolo della donna in quella abitazione. Milena, turbata, ripete di aver assistito qualche giorno prima a un episodio analogo. Qualcuno avrebbe spinto Dalla Pozza giù dalle scale per non restituirgli i soldi che gli aveva prestato.
Ma non si trovano prove necessarie per seguire la pista dell’omicidio colposo. Giusto Dalla Pozza, per l’autopsia, muore a causa di un malore seguito poi dalle fratture provocate dalla caduta per le scale. Il caso viene archiviato come incidente domestico.
La verità su Giusto rimarrà occulta per cinque lunghi anni.
Milena Quaglini: l’angelo sterminatore
Morto Giusto, la Quaglini è costretta a tornare da Mario. I due ricominciano a convinvere, dato che le due figlie non sono felici a causa della separazione. Ma il rapporto tra i due va sempre a peggiorare.

Tra litigate, violenze fisiche e urla, il rumore della televisione è solo un sottofondo. Un continuo fondersi di fiction, varietà e giochi: i classici programmi del palinsesto del venerdì sera. In forno c’è la torta al cioccolato che Milena ha appena finito di preparare, da brava mamma, per le sue bambine.
Anche quella sera lei e Fogli hanno discusso, durante la cena. Forse a causa della stanchezza, Mario è subito andato a letto. Sarà rimasto giusto un quarto d’ora sul divano, ignorando la Quaglini.
Verso mezzanotte rimane solo la donna, seduta sul tavolo in legno della cucina con un bicchiere di brandy in mano. L’ennesimo della serata. Per quanto, infatti, si sforzi a bere di meno, da quando è ritornata a casa del suo ex-marito non riesce a smettere. Senza di questo non potrebbe essere tranquilla, ma anzi spaventata, dal suo compagno.
Così, passa la notte insonne, a osservare suo marito dormire, avvolta dalle tenebre. Lo scoccare delle lancette dell’orologio si fa sempre più pesante, così come i pensieri nella testa di Milena.

Il giorno dopo è domenica 2 agosto. Fuori fa caldo ed è una bella giornata. Il Sole splende e l’aria è pulita. Molti dei condomini si stanno divertendo a ripulire il proprio appartamento. Altri sono a mare, a godersi gli ultimi giorni della bella stagione, che a Pavia non dura molto,
Tra i pochi rimasti a casa c’è la famiglia della Quaglini. Milena è infatti nuovamente seduta al tavolo della cucina quando le due bambine si svegliano. Ha delle profonde occhiaie e neanche tanta voglia di mangiare. Davanti solamente una tazzina di caffé, un’aspirina per il mal di testa e la bottiglia di brandy della sera prima, ormai vuota. Ogni tanto guarda con apprensione le bambine, che ricambiano gli sguardi premurosi.
Quando le chiedono dov’è papà, risponde che è fuori a sbrigare delle commissioni, ma che sta tornando a casa. Le due piccole vanno poi a sedersi di fronte al divano, per guardare la televisione. La più piccola, quella di cinque anni, le chiede come mai ci sia un tappeto che pendola dalla finestra, con un cumulo di rifiuti ai piedi.
La Quaglini si alza in piedi e raccomanda alla due di non toccarlo, con la voce tremante. “La mamma ha appena finito di lavarlo, state attente e non avvicinatevi“, ripete a oltranza. Le due annuiscono. Poi Milena le abbraccia, stringendole a sé. Dà a ognuna di loro un bacio sulla fronte.
Prende il telefono di casa tra le mani. Ha il magone in gola ma sa che è la cosa giusta. Ha dovuto farlo e, adesso, questo è l’unico modo per ottenere una pena minore così da poter tornare prima dalle sue figlie.
Piano piano, le dita, tremanti, premono due volte il numero uno e poi il due. Dall’altra parte della cornetta il vicebrigadiere di turno al centralino, Luigi de Montis. Il respiro è pesante, la voce interootta dai singhiozzi.
A questo, Milena dirà: “Ho ammazzato mio marito”.
Le tre vittime della Vedova Nera
Al telefono, la Quaglini racconta per filo e per segno i dettagli del delitto.
Sono le 22.30 dell’1 agosto quando, prima di andare a dormire, Mario riempie nuovamente di botte Milena. Ormai è di routine, ma non sa che questi schiaffi alimentano ormai da giorni la natura mostruosa che la Quaglini cova dentro di sé.
L’alcol la nutre più del cibo, la disseta più dell’acqua. E’ più confortevole di un abbraccio e diventa un consigliero fidato. Nei suoi bicchieri è ormai solita scogliere anche pasticche di psicofarmaci. Un mix letale, che aveva più volte usato sperando di arrivare alla morte.

Quella sera, inspiegabilmente, Milena Quaglini capisce di non meritarsi tutto questo. La luna illumina tutta la stanza. Tra le sue dita, le corde delle tapparelle le trasmettono una scarica lungo tutta la spina dorsale. Per la prima volta sente il controllo tra le mani.
Cautamente si avvicina a Mario, che dorme beato. Con quella corda lega prima tra loro le sue caviglie, poi i polsi, infine il collo. In gergo tecnico si tratta del nodo scorsoio. Più banalmente, lo incapretta.
Sentendo il respiro mancare, il marito spalanca gli occhi e si dimena, cadendo dal letto. Nuovamente le dà della poco di buono e le ordina di liberarlo. Lo fa urlando e rischia di svegliare l’intero vicinato, comprese le figlie. Così Milena prende in mano una lampada e lo colpisce alla nuca. Poi afferra il portagioie, presa da una furia incontrollabile, e glielo sbatte addosso ripetutamente.
Non soddisfatta alza un piede e lo schiaccia contro il collo di Mario. Poi impugna uno degli estremi della corda e, con tutta la sua forza la tira verso di sé. Il corpo di questo si irrigidsce e il volto si fa sempre più gonfio. Un ultimo sospiro esce fuori dalle sue labbra.
Passano i minuti e Milena ritorna in sé. Gli chiede, anzi lo supplica di svegliarsi. Ma è ormai troppo tardi. Mario Fogli è morto.
Il suo corpo lo avvolge, come una mummia, in dei sacchetti di plastica, e lo nasconde sotto il tappeto.
Ciò che stupirà gli inquirenti è il fatto che, nonostante l’omicidio del marito, Milena continui a ripetere di essere la vittima.
Nell’aprile del 99′ la Quaglini viene condannata dal Tribunale di Voghera a quattordici anni ma l’avvocato Licia Sardo riece a far abbreviare la condanna, sfruttando le condizioni di semi-infermità mentale. La pena diventa di sei anni e otto mesi da scontare agli arresti domiciliari.
La spediscono così da una comunità di recupero e l’altra, da cui viene sempre cacciata perchè continua comunque a bere.
Chiunque sembra rifiutarla: nessuno vuole in casa Milena Quaglini, una killer alcolizzata. La prigione non è però un posto per una donna come lei, che finalmente ha scoperto cosa voglia dire essere libera, oltre che avere il controllo su un uomo.
Mario Fogli non sarà l’ultimo.

Il 24 ottobre dello stesso anno, le Forze dell’Ordine si addentrano nell’Oltrepò pavese. C’è freddo, vento e umido. Oltre a un sottile strato di nebbia, tipica delle zone.
Un odore acre e nauseante proviene dalla concimaia di una villetta del luogo. Al suo interno il cadavere in posizione fetale di un uomo, rannicchiato. Un letto di mosche ronza sopra di esso, attirato dall’avanzato stato di decomposizione in cui si trova.
Sulla scena del crimine vengono ritrovati un salva-slip, dei capelli e una scatola di sonniferi vuota. In più, la fiat della vittima, Angelo Porrello, è sparita.
Dal confronto della targa, gli inquirenti hanno la conferma di chi sia il colpevole. Qualche settimana prima, a bordo della stessa auto, avevano trovato Milena Quaglini, evasa dai domiciliari.
Nervosa, nega più volte di avere a che fare con la morte di Angelo. Ma sono molte le prove a inchiodarla, prima tra tutte la scatola di ipnogeni, gli stessi che usa lei secondo la sua cura psichiatrica.
La Sardo la interroga una seconda volta. Quando le viene chiesto se c’entra con il delitto di Porrello, Milena ghigna, poi abbassa leggermente il capo e lo avvicina a quello dell’avvocato, seduto di fronte a lei. In un sussurro, dà il via alla confessione.
Angelo Porrello è un cinquantatreenne longilineo e ben impostato in cerca di una compagna a cui affittare una stanza di casa sua. Una donna di massimo quarant’anni disposta a svolgere dei lavoretti domestici. L’uomo ha appena finito di scontare il carcere per abuso su minori: aveva violentato le sue figlie.
Ma, quando Milena accetta l’offerta, di cui aveva letto su un giornale, ignora questo dettaglio. In fondo è proprio quello che cerca, un luogo dove scontare gli arresti domiciliari.
La Quaglini è così minuta. Ha gli occhi grandi e scuri. Le mani esili. Le labbra poco pronunciate e il sottile naso all’insù. Sembra quasi un angelo, dall’aspetto infantile. Porrello ne viene conquistato: appena può prova a baciarla, afferrandola per la gola, ma viene respinto. Angelo non accetta il rifiuto e la trascina per i capelli.
Inerme, Milena non può reagire quando viene lanciata sul letto. È sovrastata dall’altro, che le blocca i polsi sopra la testa. Le schiaccia le ossa del bacino e dello sterno con le sue e le strappa via la camicia. Poi le abbassa i pantaloni.
Presa dalla paura, ma anche dalla rassegnazione, mormora un’ultima sommessa preghiera. In preda a un orgasmo, l’uomo le si accascia addosso, prima di violentarla una seconda volta. Poi, si tira su l’intimo e si siede sul divano, mentre le ordina un caffè.
La donna recupera i sensi, ma non la lucidità, che è stata annebbiata. Mentre barcolla si dirige verso la cucina.. Una a una scioglie le pasticche del suo sonnifero nella bevanda, insieme ad abbondante zucchero. Angelo non si accorge di nulla, e ingurgita in un colpo la bevanda bollente che, sin da subito, gli provoca nausea e spossatezza. La testa vortica troppo velocemente. Prova ad aggrapparsi al collo della donna, ma crolla sul pavimento,
Milena a quel punto lo spoglia, lo infila nella vasca, e lascia scorrere l’acqua, affogandolo. Dopo trenta minuti, Porrello è immerso tra acqua tiepida, vomito e feci.
Eppure, quello di Porrello non è l’unico omicidio che confessa, ma anche quello di Giusto Dalla Pozza. Il suo Pigmalione che, quel giorno di ottobre del 95′ prova ad afferrarla da un braccio e a buttarla sul letto. Alla richiesta dell’uomo di restituirle in natura il denaro prestato, Milena si ribella. Afferra la lampada e lo colpisce alla nuca.
L’accusa si serve di nuove perizie psichiatriche che dimostrano che Milena Quaglini è assolutamente capace di intendere e di volere. Viene quindi mandata in carcere, dove morirà suicida in attesa del processo per l’omicidio di Porrello.
Termina qui la storia di Milena Quaglini. Una storia di abusi e sofferenze. Di depressione e dipendenze. Di sangue. Il racconto di una vita spezzata dal troppo dolore subito. Della prima vittima in Italia a diventare da vittima, una carnefice.
Della storia di Milena rimane solo il ricordo della sua voce e del suo viso d’angelo, divorato dalla vendetta.
Scritto da Gaia Vetrano
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