Morte, tabù e capitalismo: cosa hanno in comune?

di Mirko Aufiero
6 Min.

“Se quando morirò dovessi scoprire che c’è la vita eterna, direi a Dio che ho sbagliato”.

Margherita Hack

La morte fa parte del ciclo della vita, tutti siamo destinati ad incontrarla prima o poi, ma nella nostra società essa è diventata un’entità misteriosa, quasi un’estranea, venuta a turbare il normale svolgersi della nostra esistenza. 

Essa è sempre presente, eppure non la vediamo; molte sono le cause di questo occultamento, cerchiamo di analizzare le più importanti. 

L’allontanamento della morte 

Nella nostra società possiamo assistere ad un complesso meccanismo di occultamento e separazione della morte dalla nostra vita. Essa, infatti, è stata oggetto di un’enorme campagna di censura inconscia, che l’ha portata a prendere il posto dei tabù sessuali fra gli argomenti innominabili. 

Certamente sentiamo ogni giorno le notizie riguardanti la morte di personaggi famosi e casi di omicidio, ma ciò che è venuto meno è il rapporto personale e diretto con essa. 

Risulta alquanto difficile per ognuno di noi iniziare un dialogo sui nostri sentimenti che la riguardano. Spesso cerchiamo di liquidare la questione con frasi prive di un vero significato come “ci penserò quando sarò vecchio” o “la morte arriva per tutti e dunque non me ne preoccupo”. 

Nella nostra vita cerchiamo dunque di evitarne il pensiero a tutti i costi, convinti inconsciamente che allontanarne l’idea, possa allontanarne la venuta.  

L’esperienza che ne facciamo oggi è basata sulla distanza: raramente ci capiterà di trovarcela davanti nella forma di un uomo morente. I luoghi che deputiamo alla morte, infatti, sono gli ospedali e gli ospizi. Lì gli individui sono separati dal resto della società, in modo che l’evento destabilizzante del trapasso trovi un suo confine e venga neutralizzato

In seguito, spetterà a dei professionisti occuparsi del cadavere, permettendoci di evitare il confronto con la morte nella sua dimensione materiale.

Morte e capitalismo 

Il capitalismo e la morte sono strettamente legati: affinché il primo si realizzi, è necessario che la seconda scompaia.  

In una società come quella attuale, incentrata su ritmo e produttività, non c’è tempo per fermarsi a constatare la finitezza della vita e per prendersi una pausa per affrontare il lutto. 

In una economia globalizzata, in città di milioni di persone e in aziende con migliaia di dipendenti, la sottrazione di un elemento non determina lo sfaldamento del sistema, che procede come se nulla fosse successo. È venuta dunque meno la dimensione collettiva della morte. 

In una comunità rurale, invece, formata da pochi nuclei di famiglie allargate, dove ogni individuo ha il suo ruolo preciso, la morte assume un profondo significato sulla collettività. Da qui i grandi funerali del passato, dove tutta la comunità si riuniva per rendere omaggio a una parte di sé ormai perduta

Morte e percezione di sé 

Un’altra causa dell’occultamento della morte sta nella percezione che il proprio Io ha di sé in rapporto con il mondo esterno. In una società in cui l’Io viene schiacciato da forze che non può controllare (l’economia, le pandemie, le guerre, ecc…) e in cui si sente isolato dagli altri uomini, allontanare l’idea della morte risulta rassicurante, in quanto quest’ultima è da sempre la forza incontrollabile per eccellenza. 

Oggi la dimensione del trapasso risulta infatti angosciante per i singoli individui. Questi, non potendo più contare su una dimensione collettiva che la valorizza, o su autorità come la Chiesa che imponevano una data visione dell’aldilà, si sentono persi. 

Tra libertà e schiavitù 

In passato, come nella società tribale o nel Medioevo, la visione di ogni individuo dell’aldilà era imposta dall’alto. Ogni individuo era portato ad assumerla come vera per rispetto nei confronti dell’autorità, dallo sciamano, alla Chiesa

Ciò però non veniva avvertito come un’imposizione; aveva infatti la funzione di dare dei punti fermi nella vita degli uomini, che di conseguenza si sentivano rassicurati e avevano la certezza di proseguire la loro esistenza nell’aldilà. 

Soprattutto nelle classi più basse, la fede in una vita ultraterrena aveva una funzione di controllo e repressione degli istinti più violenti. Non importava quanto misera potesse essere l’esistenza poiché, dopo la morte, se in vita si fossero seguite le leggi e la morale, si sarebbe stati ricompensati. 

In seguito, a partire idealmente dal Rinascimento, e in particolare con l’Illuminismo, questo sentimento di certezza è venuto a mancare. Si sono sgretolate infatti le certezze nelle autorità, ed ha assunto un peso sempre maggiore l’individuo. 

Quest’ultimo, ha assunto sempre maggiore libertà di pensare e di immaginare il proprio futuro dopo il trapasso. Questa libertà, se da un lato ha permesso all’individuo di liberarsi dalle catene, dall’altra lo ha reso solo e sperduto

In assenza di una autorità alla quale obbedire, l’uomo è arrivato a temere che dopo la sua morte ci sia il vuoto. Ma poiché questo scenario lo terrorizza e minaccia di privare di senso la sua esistenza, egli ha preferito rimuoverlo, limitando il più possibile la sua esperienza di Thanatos. 

Scritto da Mirko Aufiero


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