Violenza di gruppo

La violenza di massa: dall’animale all’uomo

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La violenza di massa rappresenta una dimensione umana universale, ineludibile. Anzi, è più antica dell’uomo stesso, radicata nel mondo animale, quindi necessariamente parte dello stesso processo di ominazione.

Le passioni elementari, ovvero gli istinti primi che caratterizzano il mondo animale sin dai tempi dei primati sono due: aggressività e paura.

Cosa distingue l’animale dall’uomo? Dove è (mal) nascosto l’istinto violento nell’uomo civile contemporaneo?

Il (buon?) selvaggio contemporaneo è disinteressato e distruttivo

Nel mondo animale il verbo “aggredire” è associato alla dinamica di predazione, ad una necessità meramente alimentare, ad un istinto di sopravvivenza elementare. Mors tua, vita mea. La continuazione della specie data dalla selezione naturale. Il comportamento aggressivo ha una ragione utilitaristica, per così dire.

La distanza con l’atteggiamento umano arriva con l’ingresso, neppure troppo silente, del sentimento d’odio, che negli animali è assente. L’uomo è selvaggio, il suo fine è la distruzione dell’altro.

La violenza umana è un rovesciamento di quella animale legittimata dalla massa

La massa tenta una fuga aggressiva, che si traduce in una azione di sottrazione violenta rispetto ad una situazione minacciosa o potenzialmente pericolosa. Non guarda la preda con gli occhi della fame, o meglio, non in senso alimentare. Piuttosto, è fame di carne e sete di sangue. Uccide con il fine unico ed ultimo di uccidere. La massa, dunque, non uccide per nutrirsi, uccide per uccidere, e in alcuni casi, con il gusto inconsapevole e folle di farlo.

La chiave che porta il gruppo ad agire è semplice: è l’annunciazione dello scopo, e la determinazione che ne consegue. L’intensità che si respira nel gruppo, è quella di una eccitazione primordiale che unisce i singoli in uno slancio violento. Il gruppo, in quanto massa, non si identifica sempre e unicamente con la violenza, ma legittima l’azione in virtù della massa stessa. La violenza è legittimata dal fatto di essere in tanti. Non importa quanti, se insufficienti, ma comunque non singoli. O meglio, singole individualità che messe insieme legittimano una azione possibile e socialmente riconosciuta solo se in gruppo.

L’estrema interpretazione di “l’unione fa la forza”. Ognuno vuol parteciparvi, ognuno colpisce. Se non può colpire, vuole almeno vedere come gli altri colpiscono. Sembra che tutte le braccia siano di una sola creatura. Ma le braccia che colpiscono hanno maggior valore e peso. Lo scopo è tutto.

La vittima è lo scopo; ma essa è anche il punto di massima concentrazione: essa riunisce in sé le azioni di tutti. Scopo e concentrazione coincidono.

L’esposizione alla violenza nel tempo ha generato una società violenta

Il Novecento è il secolo delle grandi guerre e dei grandi dittatori. A causa della guerra, l’autorità patriarcale già messa in crisi è crollata definitivamente con l’assenza. I padri, infatti, costretti a separarsi dal nido domestico, hanno perso una parte della crescita dei figli, i quali in quel lasso di tempo sono cresciuti e cambiati, tanto da crare una frattura generazionale fra le due figure.

I due grandi conflitti mondiali rompono lo schema eroico del mondo antico per cui il soldato eroe era visto, anche se vinto, come un modello in cui tutte le generazioni maschili successive avrebbero dovuto identificarsi, a partire dal nucleo. L’orrida esposizione alla violenza culmina con la morte di Mussolini in piazzale Loreto. Da lì, è un percorso tutto in discesa. Passano gli anni e il delinquentismo giovanile prende sempre più rapidamente piede.

Dalla frattura alla crisi che genera violenza (socio-culturale) di massa

La rottura del legame fra padre e figlio ha generato nel maschio una crisi di identità radicale. Poiché, se il maschio non è più padre, deve pur essere qualcosa: Ma cosa? Come? Perché?

Tornare indietro, regredire a ciò che era il mondo prima del padre: un branco animale a caccia. La massa. Il singolo, infatti, può associare alla violenza un senso di colpa. Il branco, la massa, il gruppo, ha la sua cultura e incarna il ruolo di tribù che ritualizza tale regressione e traduce il senso di colpa in un evento collettivamente accettato. Qui nessuno è padre, e in quanto tale, è sollevato da ogni responsabilità. La vittima è innocua, ma non è rappresentata come tale. È vista come potente, minacciosa e soprattutto colpevole. Quindi l’uccisione collettiva non è vissuta come colpa ma come inflizione di pena, come atto di giustizia.

Scritto da Alessia Giurintano


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