Trama
Dopo aver perso la memoria per aver salvato un soldato tedesco in un incidente aereo durante la prima guerra mondiale, un barbiere ebreo (Charlie Chaplin) ritorna dopo vent’anni nel suo quartiere e, riacquisita la memoria, si innamora e sposa una giovane ragazza, Hannah (Paulette Goddard). Ciò che il barbiere non sa, tuttavia, è che durante la sua lunga convalescenza è salito al potere un feroce dittatore, Adenoid Hynkel (Chaplin), che mira alla tirannica conquista del mondo.
Recensione
Nel 1940, un anno dopo lo scoppio della guerra in Europa, gli equilibri del cinema internazionale vengono messi radicalmente in discussione: dopo decenni di Charlot e di commedie fabiesche mute, Charlie Chaplin presenta una forte e coraggiosa satira politica attraverso il suo iconico stile di raccontare le storie, decidendo di esordire nel sonoro in maniera per nulla convenzionale. In un mondo che da decenni era abituato a film-propaganda, Il Grande Dittatore non poteva far altro che lasciare un profondo segno, tanto che si dice costò l’esilio in Inghilterra per l’attore nonché regista inglese. Ideato durante la visione del film di propaganda nazionalsocialista del 1935 Il Trionfo della volontà, Chaplin crea una a dir poco geniale storia in cui paura di censura e mancanza di coraggio non trovano alcuno spazio.

Charlie Chaplin ritorna sul grande schermo dopo ben quattro anni dall’ultima apparizione in Tempi Moderni (1936), ripresentando il suo iconico personaggio, Charlot (anche se l’identificazione di Charlot nel barbiere ebreo è ancora discussa), andandosi tuttavia a discostare lievemente dal suo passato: sono diverse le scelte che hanno reso Il Grande Dittatore il film brillante che vediamo ancora oggi. Innanzitutto, la storia segue due narrazioni all’apparenza parallele ed opposte: da una parte un povero barbiere ebreo alle prese con l’amore per la sua amata e gli squadroni antisemiti del regime di Hynkel, e dall’altra le gesta di un tiranno che mira ad espandere il proprio dominio sull’intero globo. Il dualismo tuttavia tocca anche il meta-cinematografico: difatti, le storie del barbiere e quella del dittatore sono anche la contrapposizione tra cinema muto e sonoro, quindi tra un modo di fare cinema per l’epoca “classico” e un modo nuovo di esprimersi e suscitare emozioni. Ne Il Grande Dittatore questa contrapposizione diviene un connubio vincente, e il merito risiede naturalmente nel genio di Chaplin. L’artista inglese, infatti, grazie anche all’esperienza maturata nel genere comico, riesce a cogliere quegli aspetti più minuziosi delle rigide convenzioni istaurate dal regime nazista andando a creare un’acuta satira, ridicolizzando la figura del führer e non solo: ad essere presi di mira sono infatti anche gli alleati come Benito Mussolini, che nel film diviene Benzino Napoloni.

Ancora intriso dunque di tecnicismi ed espedienti ereditati dal cinema muto e dal fiabesco, quello de Il Grande Dittatore è un racconto sì sardonico ma finalizzato ad una morale notevole e ben definita: la schiavitù dei popoli e la violenza avvelenano il cuore dell’umanità. Nel mondo immaginario creato da Chaplin, il barbiere ebreo è uno dei pochi che riesce a mantenere un’umanità profonda, cercando quella spensieratezza a cui era abituato. La difficoltà a portare avanti una propria vita viene raccontata attraverso una risata, come Chaplin era solito fare, con assoluto coraggio: non bisogna dimenticare che anche gli Stati Uniti, come la Germania nazionalsocialista, erano un Paese fortemente antisemita e razzista.
Nel corso della storia arriva uno snodo fondamentale: attraverso uno scambio di persona degno di una palliata plautina, il barbiere viene scambiato per Hynkel, sparito dopo un incidente in barca, e viene portato a palazzo. Confuso da tutto ciò che gli accade all’improvviso attorno, il barbiere si ritrova costretto a tenere un discorso alla nazione, trasmesso internazionalmente. E’ a questo punto che, grazie ad uno dei migliori e più importanti monologhi di sempre, Charlie Chaplin segna la storia del cinema:
Mi dispiace, ma io non voglio fare l’Imperatore, non è il mio mestiere, non voglio governare ne conquistare nessuno, vorrei aiutare tutti se possibile, ebrei, ariani, uomini neri e bianchi, tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi, la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abbiette, abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cinici, l’avidità ci ha resi duri e cattivi, pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. […] Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. […] L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e qualsiasi mezzo usino la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano […] . Non vi consegnate a questa gente senza un’anima, uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore. Voi non siete macchine, voi non siete bestie, siete uomini!
Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate […] . Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! […] Voi, voi il popolo avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità, voi il popolo avete la forza di fare che la vita sia bella e libera, di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia usiamo questa forza, uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavi il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere, eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia siate tutti uniti!
Charlie Chaplin

Un inno all‘umanità, all’amore, alla fratellanza, alla (vera) democrazia. Un inno che non arriva da nessun filosofo, intellettuale o politico ma da un uomo del popolo che, nonostante la povertà economica, dimostra di essere molto più ricco di qualunque altro: in se egli ha la purezza dell’umano, l’amore verso il prossimo. Un monologo che riesce a dare la pelle d’oca ancora dopo ottantadue anni, non solo per la sua importanza ma anche per quanto esso sia stato ignorato: nonostante le minacce di totalitarismi siano state ad oggi (apparentemente) sventate, ancora moltissimo c’è da imparare dall’eredità del genio di Chaplin. Infatti, se tutti uniti riuscissimo a rendere queste parole dei veri e propri imperativi categorici morali, potremmo raggiungere finalmente una felicità universale e duratura, proprio come immaginato dal regista. Purtroppo, Chaplin è destinato ad essere deluso: questa è solo un’utopia.
Scritto da Emanuele Fornito
Le foto presenti in questo articolo provengono da internet e si ritengono di libero utilizzo. Se un’immagine pubblicata risulta essere protetta da copyright, il legittimo proprietario può contattare lo staff scrivendo all’indirizzo email riportato nella sezione “Contatti” del sito: l’immagine sarà rimossa o accompagnata dalla firma dell’autore.