Divieto di istruzione per le donne afghane: non è un caso isolato

di Francesco Alessandro Balducci
11 Min.

Partiamo da un mero fatto di cronaca che nessuno può permettersi di ignorare. Dopo un assedio lungo 20 anni, nel 2021 le truppe della NATO si sono progressivamente ritirate dai territori afghani. Questa mossa ha condotto, dal punto di vista politico, all’Accordo di Doha. E dal punto di vista pratico, ad una controffensiva talebana, che in un lampo ha preso possesso di Kabul. Le conseguenze sono state evidenti, specialmente per le donne. Tra i tanti provvedimenti, che hanno ricondotto l’Afghanistan a fare un salto indietro, dal punto di vista dei diritti, di più di 30 anni c’è anche quello del divieto all’istruzione. Le donne afghane non possono frequentare l’università nel loro paese natio. Pena, seppur sia una conseguenza molto radicale, ma non difficilmente raggiungibile, la morte.

Il caso dell’Afghanistan

Il regime talebano ha vietato alle donne di frequentare l’università. Niente di nuovo, visto il modo di agire degli mujaheddin, che si ripete pressocchè immutato da anni. Eppure, l’Afghanistan non è l’unico paese che, nel corso degli anni, si è macchiato di certe decisioni. Le quali vanno indiscutibilmente contro i diritti civili. La cosa più incredibile, è che moltissimi paesi dovrebbero guardarsi allo specchio. E riconoscere di avere, seppur in germe, i semi di questi atteggiamenti. I quali, indubbiamente, si manifestano come il non-plus-ultra di una società maschilista e patriarcale.

Ma andiamo con ordine. Tra i punti focali della politica interna, sbuca la dichiarazione da parte del ministero dell’Insegnamento. “Vi informiamo di mettere in opera l’ordine di sospensione dell’educazione delle donne fino a nuovo ordine“. Nadim, un ex militante ed uno degli esponenti di punta della linea dura di stampo religioso, è stato eletto come responsabile dell’Università. E sin dal mese di ottobre, ha espresso la sua ferma opposizione all’istruzione femminile, definendola un comportamento non islamico e contrario ai valori afghani.

Con l’insediamento del secondo Emirato islamico, le promesse di maggiori aperture verso il popolo femminile si erano subito succedute. Sono rimaste parole nel vento. Le studentesse afghane si sono viste prima privare della possibilità di ricevere istruzione superiore. Ed ora, anche di iscriversi all’università. Una decisione che spezza i sogni di circa tremila studentesse afghane, che avevano ottenuto l’ammissione.

L’istruzione in Iran

Eppure, come detto, l’Afghanistan non è l’unico paese a macchiarsi di tali crimini. Nel vicino Iran la situazione non va molto meglio. In particolare, oltre all’obbligo di utilizzare il velo in maniera consona (il caso di Mahsa Amini, purtroppo, insegna), c’è anche una sostanziale divisione tra le scuole per maschi e quelle per femmine. Dal 2010 l’Iran ha adottato un sistema di quote per limitare il numero di donne che possono accedere all’Università. Ed inoltre, sono state imposte restrizioni in merito ad alcuni corsi in materia di studi sociali, in quanto “non in armonia coi principi religiosi e basate su scuole occidentali di pensiero“.

Il caso della Sierra Leone

Anche la Sierra Leone non è esente da queste situazioni, anche se in questo caso parliamo di un’abrogazione di un divieto. Nel 2015 le autorità politiche dello stato africano hanno deciso di operare sulla stigmatizzazione popolare, per controbattere dei tassi di natalità tra i più alti al mondo. Ecco perchè era stato negato, alle ragazze incinte, di di frequentare le lezioni e di presentarsi agli esami. La violazione del diritto dell’istruzione vigente in Sierra Leone è stato abilito nel 2019. La scelta di basava sull’idea che le ragazze incinte non fossero in grado di imparare. E potessero influenzare negativamente le compagne di classe a svolgere attività sessuali e a rimanere a loro volta incinte. In realtà, alle spalle c’era anche una spinta a limitare profondamente il numero di ragazze rimaste incinta in giovane età.

Quando l’istruzione è negata non solo per legge

C’è, poi, un diffuso territorio dall’Africa al Medio Oriente, in cui le donne non usufruiscono dell’istruzione, anche per motivazioni diverse. Citiamo alcuni paesi, in cui il problema tocca i punti di maggior picco. Nel sud del Sudan quasi tre quarti delle ragazze non vanno a scuola. In Repubblica Centrafricana si scorge una vera e propria mancanza di insegnanti, mentre in Niger solo il 17% delle donne tra i 15 e i 24 anni è alfabetizzata. Infine, nel Ciad le ragazze devono scontrarsi con barriere socio-economiche troppo difficili da scavalcare.

Le cause di questa mancata istruzione vanno dalla mancanza di fondi e possibilità economiche, fino a provvedimenti politici. I quali, però, presi non solo in senso antidemocratico, ma anche in senso maggiormente conservativo: dare la possibilità solo a chi ha reali disponibilità economiche di emergere, dato che i posti sono estremamente limitati. Ancora una volta, il soldo vince sulla mente.

Ovviamente permane il fatto che in molte società una donna colta, educata, è considerata pericolosa, difficile da sottomettere e, soprattutto, impossibile da sposare. Oltre che, nelle famiglie povere, una figlia femmina grava sulle spese più di un figlio maschio.

Il caso islamico in India

Nel gioco delle parti, capita anche che il popolo mussulmano possa diventare parte lesa in vicende simili.

Ci troviamo nello stato indiano del Karnataka, dove la minoranza musulmana protesta contro il divieto di indossare il velo. Il BJP, partito nazionalista e conservatore indiano, ha proibito l’utilizzo dell’hijab a scuola. I giudici che si sono occupati della sentenza, hanno respinto le richieste per l’eliminazione del divieto di utilizzo del velo. “Siamo dell’opinione che indossare l’hijab non rientra tra le pratiche essenziali dell’islam per le donne musulmane“. Il verdetto è stato accolto con favore dal BJP, ma contestato dalle rappresentanze musulmane presenti nel paese. Le studentesse musulmane della Government PU College for Girls di Udupi hanno risposto che intendono proseguire nelle proteste. E che non si recheranno in aula senza il velo. La polemica infuria e spaventa anche la comunità cristiana presente in India.

L’istruzione nell’Italia fascista

Siamo arrivati al punto di guardarci allo specchio e fare qualche riflessione dentro casa nostra. Innanzitutto, è ovvio che quando si parla di regime talebano si sta parlando di un regime dittatoriale connotato da uno spirito fortemente patriarcale. Una situazione che anche l’Italia ha attraversato anni or sono. “Troppi, ormai è passato!” direbbe qualcuno. E invece più tardi vi dimostreremo che non è così.

Se in Afghanistan la donna è trattata come essere inferiore, è bene dire che nell’Italia fascista non era così. L’obiettivo delle ideologie nazionalfasciste (ma anche naziste e, in piccola parte, anche franchiste) era la formazione di una razza pura. La donna, in questo senso, era “tutelata” in quanto produttrice di figli da allontanare dal lavoro fuori di casa e da ogni possibilità d’intervento attivo nella società. Con il Regio decreto 1054/23 venne proibita alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Con il Regio Decreto 2480/26 ci fu il divieto, per le donne, di insegnamento della filosofia, della storia e dell’economia nelle scuole secondarie. E molti altri decreti opereranno sul mondo del lavoro, precludendo le donne da lavori reputati troppo faticosi o inadatti.

L’istruzione oggi: il problema dress code

Sicuramente meno invasivo, ma altrettanto allarmante è la legge che riguarda il dress code. In cui, purtroppo, anche l’Italia finisce sul banco degli imputati. Ve lo avevamo già detto che la situazione qui non è tutta rose e fiori. Il diritto all’istruzione, in Italia, è un diritto inalienabile. Anzi, probabilmente c’è il problema contrario, con studenti “costretti” a frequentare fino ad un minimo di 16 anni la cosiddetta “scuola dell’obbligo“, per poi accontentarsi della licenza media o di un diploma preso con fatica e poca voglia.

Eppure, in questo caso il focus va posizionato non tanto sul “cosa“, ma sul “come” si manifestano queste problematiche. L’idea di base è sempre quella di una società a stampo patriarcale e misogino. Che declina il problema sul fattore “abbigliamento“.

Circa un anno fa, in una scuola di Venezia, un’insegnante di educazione fisica ha vietato alle ragazze di fare lezione vestite con un top sportivo. Il tutto, per non attirare l’attenzione e non distrarre i compagni di classe di sesso maschile. Un gruppo di ragazze ha deciso di ribellarsi si è presentata in classe, sin dalla prima ora, con indosso soltanto quell’indumento. Ovviamente è arrivato il conseguente rimprovero della stessa insegnante, con un riferimento ad un più generale senso di decoro.

In sintesi, a scuola sarebbe meglio evitare top e abiti succinti.

Quante volte lo abbiamo sentito? Quante volte ci è stato impedito di indossare un indumento perchè “poco consono“, calpestando quello che era semplicemente un nostro modo di esprimerci? E quante volte, in senso contrario, abbiamo visto ragazze vestite appositamente in abiti succinti per un esame orale universitario, con il solo scopo di strappare qualche voto in più con un professore di sesso maschile?

Il concetto alla base, sia in un senso che nell’altro, riconduce sempre ad un pensiero di stampo patriarcale, in cui la donna è, sì, una persona, ma soprattutto, un oggetto di piacere nelle mani dell’uomo. Che è sotto scacco di una pulsione sessuale indomabile, la quale va contrastata non impedendo all’uomo di cedere a quegli istinti. Bensì, insegnando alle donne a nonistigare“.

Se poi la donna stia davvero provocando o meno…beh, quella è un’altra questione, che raramente viene presa in considerazione.

Scritto da Francesco Alessandro Balducci


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