Di autolesionismo parliamo troppo poco

di Costanza Maugeri
Pubblicato: Ultimo aggiornamento il 13 Min.

Oggi 1° Marzo è il Self-Injury Awareness Day ossia la Giornata di sensibilizzazione sul tema dell’autolesionismo.

E’ nostro dovere sensibilizzare e sensibilizzarci sull’argomento per alzare delicatamente le maniche delle persone che ne soffrono, per non farle sentire invisibili, per cercare di riconoscere i campanelli di allarme e le potenziali richieste di aiuto delle persone vicine a noi.

Oggi molte persone indossano un fiocco arancione, simbolo della consapevolezza, per svelare ciò che coinvolge molte più persone di quelle che immaginiamo.

Cosa si intende con il termine “autolesionismo”?

L’autolesionismo è il danneggiamento intenzionale del proprio corpo attraverso lesioni autoinflitte. Colpisce prevalentemente le persone con disturbi psichiatrici, in particolare i soggetti con Disturbo Borderline di Personalità, depressione, disturbi d’ansia o dell’umore.

Come si manifesta il comportamento autolesivo?

L’autolesionismo si può manifestare attraverso modalità differenti:

  • L’autolesione ossia la condotta che porta a tagliarsi o a bruciare parti del proprio corpo;
  • l’auto-danno cioè l’abuso di sostanze psicoattive. Recentemente, con l’avvento dei social media, a questa modalità si è associato l’autolesionionismo digitale consistente nella creazione di profili falsi al fine di auto insultarsi, minacciarsi o di condividere informazioni personali sensibili.
  • l’auto-avvelenamento ossia l’assunzione di sostanze tossiche o l’overdose di stupefacenti.

La frequenza e il grado degli atti autolesivi

In base alla frequenza e il grado con i quali una persona compie atti autolesivi possiamo distinguere:

  • L’autolesionismo maggiore che si ha quando gli atti non sono frequenti, ma provocano un danneggiamento dei tessuti profondo e permanente;
  • L’autolesionismo stereotipico che consiste in atti ripetuti che sembrano privi di significato, compiuti da persone autistiche o aventi la sindrome di Tourette, possiamo individuare tra questi comportamenti lo sbattersi la testa contro una superfice o il mordersi;
  • L’autolesionismo moderato che si manifesta con atti ripetuti che provocano un danneggiamento superficiale dei tessuti. Quest’ultima modalità d’atto si manifesta in un autolesionismo:
  • compulsivo che si materializza nella quotidiana tricotillomania(tirarsi o strapparsi i capelli) e nell’onicofagia(mangiarsi le unghia);
  • episodico nasce con l’intento di riprendere il controllo delle proprie emozioni, percepite come opprimenti e intollerabili;
  • ripetitivo, quest’ultimo diventa una propria dipendenza identitaria, ciò vuol dire che le persone che ne soffrono si denominano, ad esempio, cutter(colui che si taglia).

Quali sono le cause?

I motivi che spingono una persona ad auto danneggiarsi sono molteplici, delicati e profondi. Per tale motivo abbiamo il dovere di non cadere in pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni.

L’autolesionismo come punizione autoinflitta

I comportamenti autolesivi possono rappresentare una punizione autoinflitta e un’ estrema forma di autocriticismo.

Analizziamo la simbologia che si nasconde dietro questa motivazione: possiamo comprendere come sia strettamente legata alla società, con particolare attenzione alle peculiarità di quella contemporanea.

I feed dei social media che compulsivamente riaggiorniamo in cerca di novità, cosa ci mostrano?

Corpi perfetti, visi bellissimi, sorrisi, finta felicità e serenità.

Accade a volte che alcune persone guardandosi allo specchio, non rivedano in sé quella illusoria perfezione e per tale motivo, che si associa spesso anche a problematiche strettamente personali, si autopuniscono.

Perchè? Perchè non rispecchiano quei modelli che ci vengono mostrati quotidianamente, come se fossimo davanti a una vetrina.

E’ così che l’autolesionismo si trasforma in un problema di portata sociale.

In una società in cui il successo personale viene associato alla velocità con cui lo si ottiene e il prendersi il proprio tempo è sinonimo di fallimento, vorrei chiederci: “Non è forse la stessa società a fallire, se non si occupa del benessere psicofisico dell’individuo?”

Una richiesta di ascolto

L’autolesionismo può rappresentare un grido. Le ferite sul corpo sono evidenti e in molti casi rappresentano, quindi, un’esplicita richiesta di aiuto dovuta ad un profondo disagio che non si riesce a comunicare.

Una regolazione emotiva

Il motivo più frequente che si nasconde dietro atti autolesivi è l’autoregolazione emotiva.

Una violenza psicologica, fisica, sessuale, l’essere vittima di bullismo, omofobia, razzismo e in generale un profondo dolore psicologico creano un bombardamento di pensieri invasivi, che spesso diventano insostenibili.

L’autolesionismo diventa, così, per molte persone il modo per regolare queste emozioni.

Il dolore fisico viene percepito come maggiormente controllabile rispetto alla sofferenza psicologica e così rappresenta un modo per alleviarla e per distrarsi da essa.

Il rapporto con il suicidio

Nonostante il suicidio rappresenti l’estremo atto autolesivo è essenziale sottolineare che non rappresenta la diretta conseguenza di atti autolesivi.

L’autolesionismo non è un modo per porre fine alla propria vita o per farsi del male.

Come affermato in precedenza in molti casi per le persone che ne soffrono rappresenta un modo per lenire il dolore, non per provocarselo.

Un modo, quindi, che testimonia una fortissima voglia di vivere e di mettere fine alla sofferenza.

Solo nei casi in cui il soggetto non riesce a curare illusoriamente il proprio dolore attraverso l’autolesionismo, ricorre al suicidio, che altro non è che il grido ultimo di una persona che non riesce a vivere come vorrebbe.

L’autolesionismo: un problema invisibile

Perchè l’autolesionismo è senza voce?

Nonostante negli ultimi anni negli ambienti educativi e formativi si sia dato più spazio alla sensibilizzazione sull’autolesionismo, è indubbio che rimanga un problema invisibile, considerato, quasi come vergogna della società.

Negli ambienti scolastici, ad esempio, la prevenzione all’autolesionismo è relegata alla singola iniziativa dell’insegnante o dell’Istituto attraverso incontri sporadici con gli studenti e le studentesse che non colmano la mancanza di un interessamento dall’alto, da parte delle Istituzioni.

Gli atti autolesivi a causa della loro natura “nascosta” non permettono in primo luogo una stima dettagliata del numero dei soggetti che li compiono, ciò porta come diretta conseguenza la sottovalutazione del problema.

L’importanza di parlarne nel modo adeguato

A causa della natura “invisibile “del fenomeno, non esiste una bibliografia scientifica ricca, ne tantomeno un interesse nel portare avanti ricerche sull’argomento.

Di conseguenza sono pochissime le persone che sanno affrontare l’argomento in maniera adeguata e approfondita.

Le scuole ad esempio riconoscono la presenza del problema come conseguenza, ad esempio, di una forte pressione sociale, di un diffuso malessere prettamente giovanile ma non ne parlano in maniera corretta.

L’argomento viene finalizzato al dibattito, alla classificazione di coloro che rappresentano “l’alterazione” del meccanismo sociale, l’incarnazione del diverso, facendo ciò il fenomeno viene discusso con distacco emotivo: un problema che la società deve riconoscere, senza però comprendere che essa stessa rappresenta una delle cause fondamentali.

E’ così che si rende invisibile un problema, relegandolo all’eccezione di singoli individui “problematici” senza comprendere che è lo specchio di una fortissima mancanza di benessere mentale che colpisce un numero sempre maggiore di giovani e anche adulti.

L’incidenza

Il 20% dei giovani in Italia compie atti autolesivi e il comportamento ha il suo principio, in genere, all’età di 13-14 anni.

Un adolescente su 7 soffre di autolesionismo.

Il picco del 22% si riscontra nelle ragazze.

Il 6% degli italiani adulti soffre di autolesionismo.

Siamo ancora convinti che sia un disturbo isolato?

Come affrontare l’autolesionismo?

Prima di tutto è essenziale riconoscere che si soffre di autolesionismo.

In questo processo di autoconsapevolezza può essere utile parlare con amici e familiari. Quest’ultimi devono mostrarsi pazienti, comprensivi e aperti all’ascolto senza pregiudizio. Ricordiamoci che fare sentire il peso del nostro giudizio sulle spalle dell’altra persona potrebbe portare al risultato opposto: il silenzio e la chiusura.

Spesso questo primo step non basta, a tal proposito è particolarmente efficace la terapia ad approccio cognitivo-comportamentale. Essa si concentra sul bisogno emotivo dell’individuo, aiutandolo ad inibire il sopravvenire di pensieri negativi.

Questo tipo di approccio terapeutico aiuta a riconsiderare l’immagine che si ha di sé.

Al centro di questa terapia c’è la ricerca di un sano metodo di autoregolamentazione emotiva attraverso la comprensione dei propri meccanismi mentali.

Altro approccio che potrebbe rivelarsi utile, secondo alcuni esperti, è la terapia di gruppo: sapere di non essere soli, di non essere i soli a soffrirne è fondamentale.

Potrebbe aiutare anche iniziare a scrivere un diario personale nel quale buttare giù tutto ciò che si sente, concedersi una semplicissima passeggiata all’aria aperta, intraprendere un nuovo sport o ascoltare musica.

In conclusione è essenziale trovare dei metodi alternativi e positivi che possono aiutare a controllare le emozioni e la nascita di pensieri invasivi.

Hai bisogno di aiuto? Contatti utili

Mens Sana : Tel. 0683390682
Telefono Amico Italia : Tel 199 284 284 ( Orari: 10:00-24:00 – Sostegno anche per mail scrivendo a Mail@micaTAI )
Telefono Amico CeViTA : Tel. 02 99 777

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Scritto da Costanza Maugeri


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